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Allonsanfàn
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William S. Burroughs. La calcolatrice meccanica, senza limiti, contro il potere

Nella triade del Beat, accanto a Jack Kerouac e Allen Ginsberg, stazionava un tossicodipendente dall’aria adulta e severa, tal William S. Burroughs, abbigliato come un gangster o un grigio impiegato di chissà quale banca dell’Interzona, un tipo lugubre che tra l’altro aveva, seppure per sbaglio, sparato alla moglie.

Così mi appariva da ragazzino William S. Burroughs, e avevo pochi appigli per approfondirne la conoscenza, a parte il fatto che un suo romanzo aveva ispirato il nome di una band jazz rock, The Soft Machine. La sua Quadrilogia o Trilogia Nova, servita dall’avanguardistico artificio del cut-up era per me illeggibile, quasi una composizione tipografica insensata, pure in elegante edizione SugarCo con prefazione quasi marxista di Giansiro Ferrata.

Sono passati i decenni e in Italia il catalogo del Vecchio Serpente – così lo sentii chiamare con rispetto da Laurie Anderson – staziona sotto il marchio di qualità Adelphi, che credo lo abbia assunto – assunto nel senso di inglobato, William S. Burroughs non era capace di lavorare davvero – come grande irregolare nichilista, forse come “disintossicatore dall’acquiescen­za agli zelanti manipolatori del Potere” (lo leggo in una scheda editoriale) ed esploratore – puro cuor di junky e gran professore ai tempi delle lettere dello yage – mentre percorreva il nostro e altri mondi, a partire da quella sterminata suburra (reale? immaginaria? mentale?) che definì appunto con il termine Interzona.

Posso forse riscattarmi, studiando un po’ una raccolta di saggi e articoli, stagionata ma fresca di stampa: La calcolatrice meccanica (traduzione di Andrew Tanzi), dal titolo in ironico onore agli avi industriali dell’autore, che a lungo lo mantennero.

L’essenziale introduzione di James Grauerholz, sodale di Burroughs nei Settanta americani, dopo il ritorno da Londra, rende chiara l’occasionalità del lavoro non narrativo dello scrittore, che divide il suo impegno tra riviste d’avanguardia, e un nuovo e redditizio mercato composto da magazine softcore (Playboy), pubblicazioni rock (Crawdaddy su cui tenne la rubrica mensile Il tempo degli Assassini) e lezioni universitarie che vengono trascritte.

La difficoltà di radunare questo materiale asistematico, che nel 1985 era in stallo, viene per paradosso superata da un cambio d’agente che prelude a un cambio di editore – Burroughs su invito di Ginsberg firmò per Andrew Wylie. Leggiamo così questi 43 pezzi, che furono stampati in tutta fretta prima del trasloco di publisher, in un ordine probabilmente casuale, ma – nota Grauerholz – anche il celebre Naked Lunch forse uscì con le bozze mescolate, a seconda di come tornarono indietro da una tipografia francese.

Questa casualità rende vario e vivace (aggettivo un po’ azzardato dato il soggetto) il volume, che si apre con Il mio nome è Burroughs. È questa una secca autobiografia che arricchisce la celebre scheda inviata dallo scrittore al Chicago Review. Diceva pressapoco: “Unico erede maschio della Burroughs Machine Corps St. Louis Missouri. Laureato a Harvard Beta Kappa 37 con ricerche postlaurea in antropologia e psicologia alla Columbia. Per gli ultimi quindici anni sono stato noto come tossicodipendente e omosessuale”.

Il breve testo mostra tutto il disincanto e la concretezza di Burroughs scrittore, assolutamente refrattario all’enfasi – altrove, in queste pagine, darà la cinica ma realistica ricetta per scrivere un bestseller e in Les Voleurs un irresistibile elogio del plagio -, mettendo ordine nella prima parte della sua vita, quella passata da vagabondo expat, tra tentativi creativi e periodi di stop e disinteresse. A 9 anni, aveva comunque già deciso quale sarebbe stato il suo mestiere e intendeva scrivere L’autobiografia di un lupo. Appaiono, nella selva dei compagni di strada, e nei luoghi di provvisoria residenza, da Città del Messico a Tangeri, comparse di rango e si annusa il mood da cui nasceranno JunkyQueer e altre opere maggiori.

Forse qualsiasi esperimento di base sulla condizione umana è pericoloso per il tessuto di falso orgoglio e preconcetti con cui l’animale umano nasconde compulsivo le sue nudità” – tradotto in pratica: il corpo dello scrittore, inteso come luogo di sperimentazione, diventa la frontiera estrema della conoscibilità. Così Burroughs scrive in un saggetto in cui tratta della costruzione di una reichiana macchina orgonica, poi citata a sproposito da Jack Kerouac (sfottuto) in Sulla strada. Ma questa idea illumina tutto il lavoro di ricerca (e il rischio a esso connesso) di Burroughs non solo qui e indica il compito che si è trovato ad assolvere. Sia che siano dedicati al “mondo dell’oppio”, con apparizioni di De Quincey alla ricerca di laudano in farmacia, sia che sviluppino spiegazioni tecniche sullo stato di dipendenza e sui nuovi poteri offerti alla società – “lavaggio del cervello, droghe psicotrope, lobotomia e altre forme più sottili di psicochirurgia” che farebbero apparire 1984 di Orwell un’“utopia benevola” (I limiti del controllo) – gli scritti di La calcolatrice sono nutriti di un twist costante di paranoia (vedi per esempio L’ultimo tossico) che può mescolare in un balletto sinistro CIA e cinesi, neri e messicani, Hollywood, tycoon vari e scienziati assortiti.

Il limite di questo Burroughs che spericolatamente non si pone limiti diventa perciò, e diviene chiaro nell’opera saggistica, l’esoterismo – non per niente si era trovato a suo agio discorrendo con Jimmy Page di Aleister Crowley. L’esoterismo che, mescolato all’ossessione, rende dure e impietose molte di queste divagazioni di cui si cerca sempre (e spesso ci si trova spiazzati) di misurare il tasso di fiction e quello d’ironia, cioè di “sentire” il giusto tono di Burroughs che può variare, secondo studiosi e fans, dal patibolare al savagely funny. Fatto salvo che la fantascienza (la scrittura) secondo Burroughs, quando cioè il terzo nume del Beat si supera nello spoglio racconto di se stesso, inquadra lo spazio interiore dell’uomo e non l’esterno esprimendo in maniera a tratti abbagliante l’inferno (l’Interzona) di cui siamo coloni.

A margine/1. Burroughs ne La calcolatrice snocciola per la nostra curiosità una densa lezione di Lettura creativa, dove ascoltiamo un pezzo di storia della letteratura attraverso la sua voce. È spietato mentre rifà il verso a Papà Hemingway, ma convince nell’affermare che è la Morte ad avergli ispirato le pagine migliori, quelle delle Nevi del Kilimangiaro, buttate poi nella macchina tritatutto di Hollywood. Loda The Dead di Joyce o il finale di Gatsby, immortale almeno finché ci sarà un lettore capace di meraviglia. Burroughs scrive anche di Kerouac e di Conrad, e in modo meno prevedibile di Beckett e di Proust, mettendoli ai due poli opposti della letteratura, e dicendosi affine al secondo…

A margine/1. “L’Interzona è una dimensione di confine, dove si incontrano le realtà più disparate, qui dominano il disordine, l’anarchia, il degrado e la corruzione proprio come nello Sprawl gibsoniano” (James Lamartina). David Cronemberg ha cercato di renderne un’idea visiva nella versione cinematografica di Naked Lunch (1991). Le macchina da scrivere, di cui un alieno consiglia l’acquisto, sono di marca Clark Nova e nell’allucinazione di William Lee si trasformano in scarafaggi giganti…

 

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