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Allonsanfàn
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Parasite. Dalla Corea il piano di Bong Joon-ho e i suoi quattro Oscar d’autore

Once upon a time, molto prima di far saltare il banco agli Oscar 2020, Bong Joon-ho (Daegu, Corea, 1969) era stato esplicito: cari spettatori e critici, aveva pregato, evitate di raccontare la trama del mio film. Non è del tipo che, se entri in sala e dici “Bruce Willis è un fantasma!”, lo mandi in fumo.

Però, è meglio vederlo con l’occhio innocente al colpo di scena, alla situazione che si ribalta d’improvviso, alla gioia e allo spavento. Vero. Parasite è letteralmente una scatola che ha il doppio fondo (segnatevelo e dimenticatevelo), un onestissimo e ben congegnato gioco di prestigio, e poi per ognuno sia quel che sia.

Se dobbiamo metterci l’etichetta, spiega ancora il regista, per alcuni sarà un family movie tragicomico, per altri una black comedy, o un thriller: Bong Joon-ho, quattro Oscar, Palma d’oro a Cannes 2019, con percentuale di gradimento da record su Rotten Tomatoes, lascia a tutti la possibilità di scegliere l’opzione preferita salvo poi farci cambiare idea ogni dieci minuti.

Chi guarda può persino sonnecchiare per la partenza un po’ lenta, anche se visivamente potente, già sospesa tra iperrealismo e favola (metafora). Il seminterrato con vista sui piedi della gente che piscia sui bidoni della spazzatura sintetizza già lo status della famiglia sottoproletaria, che si affanna per trovare un punto dove prenda il wi-fi e studia un piano per fuggire dalla miseria. Un piano, il piano, e adesso qual è il piano? Ecco il motto chiave, il tormentone. È un piano quello che il capofamiglia Song Kang-ho (dal 2000 volto ed emblema del cinema coreano) elabora per tornare in superficie, a livello strada, anzi più su, e potrebbe pure riuscire, visto che ha moglie e due figli intelligenti, scafati e spregiudicati il giusto.

Ma c’è un ma: Song Kang-ho porta addosso l’odore di stracci bagnati, di gente sudata in metro, la puzza incancellabile della povertà. La famiglia del manager informatico, scelta dai nostri Lumpen-eroi per la stangata, già dall’abitazione di design rivela il suo irraggiungibile status; e quando non saranno le classi diverse e l’economia scientifica di Karl Marx a decretare l’incompatibilità di miserabili e capitalisti, ci penserà la sfiga, la natura, il temporale, l’inondazione… Non ci sono piani che funzionano, l’unico piano sensato è non averne, mormora verso la fine, tra sé e sé, l’irriducibile, pure nella sconfitta, Song Kang-ho. Fatto. Abbiamo chiacchierato molto senza svelar nulla. No spoiler.

Di Bong Joon-ho, abbiamo amato in passato Snowpiercer (2013), filmone distopico su un’umanità derelitta costretta al viaggio perpetuo a bordo di un grande treno, dov’è rigorosamente divisa per classi. Non prima, seconda e terza. Classi marxiane (e dai!). Non c’era sembrato un capolavoro ma un’opera lavorata, aguzza, capace di ingoiare l’attenzione dello spettatore come la galleria il vagone. E nei film precedenti, fossero storie di omicidi seriali (Memories of murder, 2003), di mamme coraggio incapaci di arrendersi alle colpe dei figli (Madre, appunto, 2009) o addirittura horror atmosferici, come The Host (2006) – da non confondere con l’omonimo di Andrew Niccol – il regista ha sempre offerto un mix inquieto di genere e autorialità: sebbene quest’ultima categoria, nell’Oriente degli anni Dieci, attenga più alla versatilità e alla complessità degli effetti, all’ingegnosità e alla sveltezza di visione, che al pensoso rigorismo di certi maestri europei. Che sia da riscrivere nei dizionari di cinema il lemma Autorialità è fuor di dubbio, e il cinema coreano con Bong Joon-ho, trionfante a Cannes e agli Oscar è in prima fila a chiedere di essere riconsiderato.
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