Ho un numero spropositato di libri di Peter Handke (Griffen, 1942), come tutti quelli che sono stati ragazzi negli anni Settanta. Più di quanti ne abbia letti, va bene, ma ne ho almeno venti. Romanzi, testi teatrali (ah, gli insulti al pubblico degli esordi!), poesie (poche), saggi narrativi sul juke-box e sui funghi, sul luogo tranquillo (il gabinetto, nientemeno) e sulla matita.
Lo abbiamo sempre ascoltato, Peter Handke, per quanto potevamo capire un “abitante della baia di nessuno”, un ragazzo austriaco scostante e imbevuto dei resti di una cultura maestosa e disintegrata. Avevamo imparato, da giovani, qualcosa su di lui, quando parlava più chiaro: per esempio, che aveva una madre suicida e senza patria (Infelicità senza desideri), che conosceva donne irriducibili (La donna mancina), che considerava l’America e i suoi miti una enorme e struggente truffa (Breve lettera di un lungo addio), e poi lo amammo ancora di più poiché aveva inventato con Wim Wenders i compiti angeli col cappotto che camminavano tra le nuvole di Berlino.
In seguito, capimmo che Handke non seguiva altro che il suo passo, che dietro la sua prosa densa di poesia e filosofia – altra cosa rispetto agli attuali ibridi dell’autofiction – c’era un uomo scomodo e solitario, politicamente imprendibile: il Nobel è stato ritardato di almeno un decennio per via degli scritti sulla Serbia. Ma noi l’abbiamo sempre rispettato Peter Handke. Non foss’altro perché ci aveva indicato in alcune delle sue pagine più belle e terse lo spaesamento violento di chi vive e passa attraverso L’ora del vero sentire.
Forse per questo, in una serata milanese dell’anno scorso, vedendo legati un docu su di lui e un suo libro (Canto alla durata) a una spregiudicata operazione di marketing, ci sentimmo tristi, soprattutto quando un giornalista ci imbonì su Handke e il design. Povero Peter, ci dicemmo, che laggiù in fondo in fondo nella sua “baia di nessuno” non lo venga mai a sapere.
Era questo, forse, un augurio privato e sentimentale, molto ingenuo, legato alla storia di chi scrive, incapace di concepire che qualcun altro potesse toccare un idolo più che personale – generazionale! – metterci sopra un cappello persino commerciale, fare accomodare Handke sul lungo divano di uno sponsor. Per capire questo, la stardom di uno scrittore-fratello, posto che abbia interesse di alcun tipo, occorre fare prima un passo a lato.
I termini di una polemica
Ha scritto di Peter Handke sul Corriere della Sera Antonio Scurati, un saggetto di sociologia letteraria, tacciandolo a esempio dello scrittore del secondo Novecento, vecchio e trascorso, e condannato a trovare prima o poi, e stavolta (per Scurati) con un drammatico abbaglio, la sua ragion d’essere nel sangue di una rivoluzione: Handke ne avrebbe scelta una criminale appoggiando i serbi.
Questo perché “…l’impegno sociale dello scrittore d’Occidente s’intendeva come militanza oltranzista sotto una bandiera politica anti-occidentale (quasi sempre quella comunista)…”
Continua Scurati: “…anche la difesa di chi invoca, a sua discolpa, la separazione tra sfera artistica e sfera politico-morale è una scoria novecentesca… I custodi dei sommi valori della purezza formale dell’opera letteraria non fanno che prolungare un’ideologia avanguardistica che si giustificava solamente nell’ottica di un’arte intesa come anticipazione di un mondo a venire – un modo migliore, ovviamente. Lo stile così inteso è spesso diventato l’ultimo rifugio delle canaglie…”. Peter Handke la scoria canaglia (rilette per caso queste parole nel marzo del 2023 mi sembrano complimenti, nda).
Abbiamo tra le mani il libretto filoserbo Viaggio d’inverno ai fiumi Danubio, Sava, Morava e Drina ovvero Giustizia per la Serbia (Einaudi, 1995), cui segue quello di un secondo viaggio sei mesi dopo. Ci fa notare il giornalista Maurizio Dalla Palma che per metà il testo è una denuncia alla faciloneria dei media occidentali e per l’altra “…è dedicato a incontri con familiari dei suoi amici poeti, letterati, traduttori serbi. Ci sono camminate in riva alla Drina, conversazioni in bar scassati, visite a monasteri, trekking tra i boschi…”.
Non volevamo adesso dare patenti di innocenza o infamia, avvertivamo piuttosto la necessità di riconoscere in parte la posizione del sociologo, in parte quella di un lettore esperto, per sottolineare la complessità del reale fuori dai pollici alzati o versi dei social. E per raccontare un po’ più liberi, sotto luci generali, il Peter Handke che sta sotto la nostra personale spotlight.
Peter Handke secondo me
Credo che la notizia che Peter Handke esistesse mi sia arrivata dal cinema Obraz di Milano, poche scomode poltroncine blu in zona Garibaldi. Sia onore per sempre al cinefilo Enrico Livraghi.
Qui proiettarono nei primi anni Settanta L’angoscia del portiere prima del calcio di rigore (1972), tratto dal romanzo di Handke, e poi Falso Movimento (1975), solo sceneggiato dallo scrittore austriaco. O viceversa: dovrei scartabellare i vecchi programmi della rivista Zuppa d’anatra, i film restavano in cartellone al Cinestudio solo un paio di giorni e venivano di regola riproposti in cicli più volte l’anno.
Mi arrivò insieme a Falsche Bewegung pure la notizia che Goethe aveva scritto il Wilhelm Meister, ossia il Bildungsroman da cui era tratta la pellicola. È sul termine Bildungsroman, romanzo di formazione, che si costruisce l’attrazione per l’autore austriaco: magro e freak, dalle due foto che vedo di lui, occhiali spessi con montatura pesante e capelli lunghi e unti, immagino che stia “crescendo” insieme a me, solo da un’altra parte, solo che è di qualche anno maggiore, solo che dispone di un’altra lingua e di molti talenti in più.
Handke-scritto entra nel mio Pantheon con Infelicità senza desideri (1976 da noi) di cui colgo – travisandolo ma rimanendone in qualche modo affascinato – un lato inumano, scostante, glaciale, del ragazzo che valuta al microscopio la vita perduta, insignificante, ergo senza possibilità di redenzione, della giovane madre suicida. Più mi risulta enigmatico il senso di fondo dello scritto, più mi sento oscuramente coinvolto in questo referto di morte senza consolazione alcuna.
La donna mancina, 1979 da noi, è invece il best seller come più chiaro non potrebbe manifestarsi. Pone nel dimenticatoio un altro referto, il confuso giallo d’esordio L’ambulante, e le prime poesie tradotte (su cui forse torneremo). C’è anche una canzone, all’interno, la ballata della Left Handed Woman, a sancirne l’abbordabilità: la musica è in quegli anni infatti l’esperanto di chi è giovane.
La donna mancina diviene da subito un libro di scambio come era stato il Siddharta di Hesse oppure Il Maestro e Margherita di Bulgakov, e Peter Handke ha tutto ciò che io e i miei “compagni” di strada esigiamo da uno scrittore preferito; poiché è persino femminista, il romanzo viene regalato a infinite fidanzate da infiniti compagni nella Milano del Movimento; il significato di “maldestro, strambo”, di quel “mancino”, è sostituito dalla traduzione sinistrese in “deviante”, più consona allo spirito dei nostri tempi rivoltosi.
Peter Handke ha un’altra carta che lo promuove al culto di massa di noi studenti: oltre al sodalizio mediatico con Wim Wenders, cui il rock ha salvato la vita, impedendogli di diventare un qualsiasi avvocato – lo afferma in un’intervista ipercitata -, l’austriaco vanta l’anti americanismo ambiguo di Breve lettera del lungo addio (1972), dove peraltro, da qualche parte, con pietas quasi materna si inginocchia davanti alla tomba di una rockstar fragile e occhialuta, l’Al Wilson dei Canned Heat morto per droga.
Handke, quell’affascinante fratello maggiore che io leggo e capisco poco ma nondimeno venero, si stacca da me e forse dai “compagni” nel momento in cui esce in Italia L’ora del vero sentire (1975, da noi è in libreria solo nel 1980, dopo La donna mancina): smorzerà per sempre in lui, come fosse una chiamata da altri mondi, l’attitudine al romanzesco, e segnerà l’inizio di un nuovo peregrinare, più intenso, più intimo, meno condivisibile.
Spiega Giorgio Manacorda, in un articolo del 1990, quello che sentii per quell’Ora, senza riuscire a tradurlo a me stesso a parole: “…è un libro che segna il passaggio per Handke, …direi quasi per la sua generazione, dalla negatività di una concezione della letteratura in cui il linguaggio non significava più, non era più in grado di esprimere alcunché, alla scoperta del senso o, almeno, alla riscoperta del fatto che la letteratura ha a che fare con il problema del significato del mondo…”.
Comincia qui il vagabondare, che sia alla ricerca di un fratello maggiore o di un padre, ma retto dalla fiducia di potersi imbattere in una verità a ogni passo. Lo scrittore Handke inaugura un percorso spirituale, nutrito di piccoli saggi narrativi e di camminate più o meno laiche, per arrivare alle opere intrise di religiosità del periodo tardo.
Io e molti fans restiamo un po’ più indietro, forse preda di una fase distruttiva, pre-illuminazione. Non è scoccato il momento di rispondere alla chiamata notturna di un citofono oppure ai fari di un camion che illuminano la strada (cfr. l’orfico poeta Milo De Angelis): se non ci scuote neppure il rintocco di una nera torre dell’orologio in una città straniera…
Il mio Bildungsroman è strozzato in una negatività che non sa articolarsi. Da quell’Ora, insomma, io e molti altri leggiamo Handke come uno scrittore amato ma non più come il fratello maggiore. Ci si agita un po’ quando nel 1987 arriva il plauso mondiale, cinematografico, per gli Angeli sopra Berlino, sotto le ali del sodalizio rinato con Wenders. Ma degli angeli si parlerà un’altra volta. Io ricordo di essermi commosso vedendo il film, ma nel 1987 ero già grande, già da un’altra parte.