È cambiato sul serio il clima sulla crosta terrestre negli ultimi vent’anni, se è vero che – fermo restando il medesimo crimine – l’ottantenne Roman Polanski dall’Oscar della pace del 2002 per Il pianista è passato a esser boicottato nei cinema francesi dove si proietta L’ufficiale e la spia ed essere contestato duramente la notte in cui ha vinto il César.
Film solido, scritto con il bestsellerista inglese più forte in storia, Robert Harris, già coautore de L’uomo nell’ombra, imperniato su un caso giudiziario di provata evidenza antisemita: sconvolse la Francia di fine Ottocento, spedì l’ufficiale Alfred Dreyfus all’ergastolo sull’isola del Diavolo per tradimento e spionaggio, e portò più tardi Emile Zola a scrivere su L’Aurore il celeberrimo J’accuse (titolo originale del film), che gli valse un anno di esilio – J’abuse scrivono invece sui cartelli i contestatori transalpini.
Il protagonista della versione di Roman è l’ufficiale Georges Picquart, un virile e fascinoso Jean Dujardin, l’evoluzione della cui vita e carriera, culminata nella carica di capo del controspionaggio, scorre parallela all’affaire che si monta e smonta. Picquart, uomo onesto pur se segnato da antipatia verso i semiti, si scopre pronto ad andare controcorrente e rischiare la sua solida posizione tra cartigli strappati e ricomposti con pazienza, disperati duelli di spada, e una sequela di sedute nei tribunali, aperte ai colpi di scena; Picquart ha scoperto infatti che il flusso di notizie al nemico non è cessato con la degradazione di Dreyfus e che quindi le cose non sono andate come vogliono fargli chiedere i potenti compari.
Mentre l’ufficiale cambia idea, Polanski azzecca da subito il film che, da potenziale sceneggiato di lusso, si eleva a maestoso classico, di solido impianto e costruzione, con citazioni visive colte e insieme popolari dalla pittura d’epoca, da un déjeuner sur l’herbe a un cabaret fumoso che pare allestito da Toulouse-Lautrec.