In Quando la città dorme, nell’ospedale in cui lavora, il medico Giacomo aspetta di notte, nei panni di marito trepidante e infedele, una sentenza fatale. Il tema sono i bivi che si aprono nel quotidiano (entrare o uscire dal sonno – rivelarsi o tacere col partner – addirittura vivere o morire) in una serie di rivolgimenti di ruolo e di prospettiva che altrove includeranno pure sconfinamenti nel fantastico – i quali, credo, sarebbero piaciuti a scrittori come Tabucchi o al Cortázar de La notte supina.
A proposito di fantastico: in O a febbraio o a settembre la trasferta di una giovane e brillante coppia nella New York del dopo 11 settembre tocca, come fosse un filo elettrico scoperto, una sorta di universo parallelo. Un meticoloso e realistico “racconto dell’intellettuale” diventa una ghost story, in virtù di un imprevisto e beffardo finale.
Ma sono fantasmi – e stratificazioni culturali o altrimenti stereotipi – anche i sedimenti di civiltà passate che decidono della nostra identità e hanno sbocco nel ricordo di una vacanza in un testo dei più belli – l’unico senza plot apparente – Nella terra dei Lucumoni, i magistrati etruschi
Le ferie uniscono e mescolano gli abitanti stanziali e i turisti biondi del Nord, occupanti le vecchie e scomode abitazioni dei borghi. Nei ristoranti dove i camerieri vengono da Mahgreb si motteggia all’ombra di Guelfi e Ghibellini, e già le comunità cinesi incombono: sarà solo il gelo dell’inverno a riportare una pace un po’ sinistra.
Scambi di identità, coincidenze e scarti, limiti e varchi toccano un riuscito dittico dell’amicizia. Nell’involuto e jamesiano (per via della reticente costruzione) Rouge 89 si ricorda un genio precocemente scomparso, alla luce di una visita al Père Lachaise e di un amore che lo spinge ad alzare la posta del coinvolgimento, fino a far scorrere il sangue.
Ne Il nostro amico – letterario e divertito – ogni svolta di trama, che può condurre il protagonista al riconoscimento di un enigmatico sodale, peggiora la situazione, fino alla catastrofe, e riecheggia, anche in una certa macchinosità, più che James certi racconti di Buzzati.
Gabriele Pedullà, insomma: senza raccontarci chi è e che cosa pensa tutti i giorni quando va a insegnare letteratura italiana all’Università, si permette uno storytelling (come si usa dire) intelligente e vigile, acuminato e aperto al lampo dell’invenzione. Come nel pezzo di bravura che da il titolo alla raccolta, quasi un divertissement (o no?): nelle massime contenute nei cookies farlocchi e industriali dei ristorante cinesi, alla fine di una cena importante, possiamo davvero veder scritta la nostra sorte.
IL LIBRO Gabriele Pedullà, Biscotti della fortuna, Einaudi