Scoop è un film di fiction che all’apparenza ha la fedeltà esibita del docu e pure della realtà, basandosi su un’intervista esclusiva del 2019 (rigirata da Philip Martin sul calco dell’originale) a sua maestà il principe Andrea, duca di York, riguardo la frequentazione (ben documentata) di Jeffrey Epstein, miliardario pedofilo suicida in carcere, che offriva ai suoi ospiti intrattenimento con minorenni.
Ma poi è il montaggio a essere tutto in Scoop, molto visto su Netflix in questi giorni, mentre snocciola le domande della fatale itw del programma BBC Newsnight da parte della giornalista Emily Maitlis (una mimetica Gillian Anderson), servendo bene due scopi: mostrare quanta diplomazia e durezza, testardaggine e capacità di controllo (delle fonti e di se stessi, del proprio ego) stanno dietro al lavoro dei veri giornalisti, e quanta prepotenza e dabbenaggine appartengono a una casta di vip che si crede intoccabile. Maitlis si gioca tutto in pochi quesiti, Andrea anche, ma non lo capisce e si presenta moscio e fatuo come fosse a un tè di beneficenza.
La sceneggiatura (il montaggio parlato) di Peter Moffat e Geoff Bussetil è stato adattato dal libro Scoops del 2022 dell’ex editor di Newsnight Sam McAlister: è la donna che fa l’altra metà o i tre quarti del lavoro per l’assolo finale di Maitlis – nel film è una ruspante Billie Piper, in personale battaglia contro i colleghi che la trattano come una patita della stampa gossip. Comunque. Non è un caso che siano proprio due donne – anzi tre, se contiamo la reazione stizzita della regina – a inguaiare il principe interpretato da uno stolido Rufus Sewell. Moffat ha al suo attivo la serie drammatica Your Honor, con Bryan Cranston nei panni di un giudice di New Orleans (nella foto in alto, Anderson e Sewell in Scoop).
Netflix si era già occupata di Epstein in un’altra occasione, un docu che ricostruisce tutta la trista vicenda, dagli esordi dorati alla drammatica conclusione.
Ma ripartiamo dall’inizio. Da quando Graydon Carter, leggendario e spettinato direttore di Vanity Fair, fa una cortesia alla giornalista investigativa inglese Vicky Ward, incinta di due gemelli. Le affida il ritratto di un uomo misterioso che Ward potrà scrivere – sbattendosi un casino, per verità – senza viaggiare troppo. È il 2003, lo sconosciuto è Jeffrey Epstein – miliardario di cui la fama mormora sia una sorta di Jay Gatsby – e che, seppure molto presente nel jet set, è privo di una biografia nota da offrire al grande pubblico.
Ward, che ha finito di lavorare a Talk di Tina Brown, prende l’incarico con entusiasmo. Tutto fila senza scosse finché si imbatte in due sorelle, che riempiono una casellina rimasta vuota: il fattore femminile. Epstein, fidanzato con Ghislane Maxwell, rampolla della dinastia, si contorna sempre di donne bellissime, ma nel 1996 avrebbe tenuto un comportamento inappropriato con la giovanissima pittrice Maria Farmer – autrice di sognanti Alici nel paese dell’adolescenza – e con la di lei sorella minorenne: quest’ultima viene invitata in un losco weekend nella labirintica villa messicana del miliardario. Dove appare per la prima volta una pratica chiave, quasi ossessiva nel caso Epstein, eseguita incessantemente alla corte del neo Gatsby: i massaggi, piacevoli e rigeneranti, il miliardario li chiede ai piedi e spesso tende ad accompagnarli con sgradite – per chi li riceve – coccole (questo nel caso della piccola Farmer, ma in seguito arriverà allo stupro). Il tutto confluisce in una denuncia che non ha seguito.
Ward parla a lungo con le Farmer, mette nero su bianco, e subisce, quando sta concludendo il pezzo, una telefonata sgradevole dello stesso Epstein, il quale le promette letteralmente maledizioni sciamaniche sui bimbi che ha in grembo nel caso nominasse le ragazze. Ward tiene alta la testa, e fa spallucce.
Il pezzo esce nel marzo 2003, con il titolo Il talentoso Mr. Epstein – cade il paragone con Gatsby subentra quello con il truffaldino Ripley di Patricia Highsmith – ma non compare neanche un paragrafo sull’affaire incriminato. Ward resta basita e strepita, da Vanity Fair le fanno sapere che quella parte dell’articolo non ha superato il fact checking del magazine di casa Condé Nast.
Signori e signori, ecco a voi Jeffrey Epstein: soldi, potere e perversione, il web documentary in quattro parti di Netflix, basato sul libro del 2016, Jeffrey Epstein: Filthy Rich (Sporco Ricco), edito ora da Chiarelettere, e firmato dal trio James Patterson, John Connolly e Tim Malloy. Il docu raccoglie lunghe interviste con le survivors del predatore come Virginia Giuffre, membri dello staff di Epstein, e poliziotti segugi alla Michael Reiter, uomo chiave che apre il primo fascicolo contro il miliardario. La fine è nota: Epstein si uccide a 66 anni il 9 agosto del 2019 nel carcere di Manhattan, nella cella (mal sorvegliata) dove l’aveva condotto la sua scellerata parabola. La fine non è ancora nota quando viene scritto il libro (che è stato due volte riaggiornato) e Lisa Bryant comincia a girare il docu, coadiuvata da executive producer esperti di True Crime come Joe Berlinger. Ma poco fa.
Il James Patterson di Sporco Ricco è lo scrittore best seller di Alex Cross, forte di 400 milioni di copie vendute nel mondo, e si interessa per primo a Epstein perché ha fiuto e, più banalmente, perché un giorno se lo trova vicino di magione nella lussuosa e anestetizzata (dai dollari) Palm Beach.
Con l’aiuto dei due giornalisti, Patterson mostra di esser persino più bravo che nei romanzi: senza perdersi in chiacchiere, si districa in una miriade di cartacce e rende i fatti assai vividi sulla pagina, pure di più che nella versione visiva, piuttosto scolastica, di Netflix.
Sullo schermo, però, abbiamo il vantaggio di vedere, nei filmati di repertorio e durante gli interrogatori, il viso duro del Gatsby-Ripley dei nostri tempi, solo o attorniato da celebs – il principe Andrea e Trump i più pentiti di averlo frequentato. È il viso di un ex ragazzo su cui è calata, come se fosse precipitato per caso tra gli umani, una maschera di antipatica e impenetrabile alterità.
Un’altra storia (complottista) su Epstein. Qui