Pinocchio di Matteo Garrone ha diviso con Favolacce il successo ai recenti Nastri d’Argento, conquistandone 6, compresa la miglior regia
Il vero Pinocchio, secondo il vertiginoso scrittore Giorgio Manganelli, che ne firmò uno parallelo (nel 1977, guarda che data) è pressapoco un luogo magico della letteratura, animato dalla ribellione di un piccolo alchimista al contrario, che fonda il reale sulla bugia; questo Pinocchio, non nato dalla zona conscia di Carlo Lorenzini detto Collodi, “borghesuccio di Pescia”, compare solo a tratti, per magia stavolta del cinema, nelle scene clou del film di Matteo Garrone, che sono non a caso le più aperte al buio, al mistero, fortemente visive e sfuggenti a un’interpretazione meccanica. Là dove appaiono per esempio e non a caso figure in qualche modo intermedie, proprio come il nostro burattino vivente: grilli mostruosi, enormi donne lumaca, altri burattini sia demoniaci sia amici, neri conigli beccamorti e strazianti ciuchi mutanti, per non dire della prima fatina-lolita dai soffici capelli turchini.
L’altra metà del film di Matteo Garrone – al contrario di chi dopo Dogman attendeva un burattino tutto dark – è quella diurna, molto italiana e molto contadina: si affida da subito al concreto Roberto Benigni-Geppetto, che fa per Garrone le gag del morto di fame – povertà è la parola più pronunciata insieme a babbo e a casa nel Pinocchio di Collodi e in questo – e conta sul gruppo di commedianti bravissimi e trasformisti, dalla Volpe ferina di Ceccherini, al Gatto morto di Papaleo, al Mangiafuoco commosso di Proietti.
In mezzo, corre a perdifiato il piccolo Pinocchio – il protagonista Pinocchio – il quale non è esattamente il personaggio più riuscito del film né per fattezze né per movimenti e, in ultima istanza, non riesce a prendersi addosso il peso dell’intera vicenda, se dobbiamo intenderla come la miracolosa trasformazione del burattino in bambino, dell’inumano in umano.
Non è nemmeno opportuno però essere severi con il film per via degli infiniti Pinocchi che ci si affollano nella memoria fino a giungere al nodo di Garrone e a una versione che vuole essere davvero per tutti, con richiami visivi in parte recuperati dai disegni di Enrico Mazzanti, l’illustratore che lavorò assieme a Collodi, in parte dall’esperienza fantastica di Garrone stesso, a ricordare la sua versione de Lo cunto de li cunti di Basile. Non fosse poi che Pinocchio è un soggetto maledetto per il cinema d’autore, avendo tradito tra gli altri lo stesso Benigni (quando ne fu protagonista e regista) e, una volta, persino Steven Spielberg (A.I.)…