Oggi, 9 luglio, Adriano Panatta compie 70 anni.
Non provate mai a chiedere chi è stato il più grande tennista italiano di sempre. O almeno non chiedetelo a Nicola Pietrangeli e ad Adriano Panatta, che si contendono il primato. Essendo amico di entrambi, conosco a memoria le loro risposte.
Nicola risponderebbe che non c’è storia perché lui ha vinto due volte il Roland Garros e vi ha disputato altre due finali, due volte gli Internazionali d’Italia ed è stato semifinalista a Wimbledon. Inoltre detiene il record mondiale di presenze in Coppa Davis, 164, un primato assolutamente imbattibile.
Adriano risponderebbe che erano altri tempi, che il tennis open doveva ancora arrivare, che i migliori giocatori del mondo erano tra i professionisti e che il suo titolo del Roland Garros nel 1976 vale di più proprio perché superò uno dopo l’altro Bjorn Borg (che a Parigi in tutta la sua carriera fu sconfitto soltanto due volte, entrambe da Panatta), Eddy Dibbs e Harold Solomon.
Le carriere di Pietrangeli e Panatta si incrociarono quando il primo era sul viale del tramonto e il secondo stava diventando un giocatore di talento. Accadde a Bologna nella finale dei Campionati italiani assoluti del 1970 e allora si disse che quello era il passaggio delle consegne tra il vecchio (37 anni) e il nuovo campione (20 anni).
Campione Adriano lo diventò un po’ di tempo dopo, nel 1976, il suo anno d’oro, quando trionfò a Roma, a Parigi e conquistò a Santiago del Cile la prima e unica Coppa Davis della storia del tennis italiano.
Panatta è passato alla storia del tennis come un talento limpidissimo, non sempre supportato da condizione fisica e spesso frenato da una certa pigrizia di fondo. Genio e sregolatezza, verrebbe da dire.
La carriera di Adriano ha accompagnato l’inizio della mia passione per il giornalismo. Questo ha portato alla nascita di un rapporto personale intenso, ma ricco di alti e bassi.
Lunatico come sanno esserlo quelli del segno zodiacale del Cancro, Panatta aveva una personalità spiccata che metteva in soggezione i suoi avversari, ma anche i suoi conoscenti. Paolo Bertolucci, che non solo è stato il suo storico compagno di doppio ma l’amico di una vita, mi spiegò che la giornata di Adriano dipendeva da come metteva giù il piede dal letto la mattina. Se aveva la luna storta, era capace di non salutarti neppure. Se poi lo avevi criticato, era capace di non rivolgerti più la parola per settimane. Successe a me più di una volta, come successe ad altri giornalisti più illustri tipo Gianni Clerici e Rino Tommasi.
La verità è che nessuno di noi era disposto a perdonargli una sconfitta contro giocatori che avevano un decimo del suo talento. Era un affronto che ritenevamo insopportabile per le doti che madre natura gli aveva elargito in abbondanza.
Del resto Panatta non ha mai vissuto di ricordi e ancor oggi rievoca quasi con fastidio le sue imprese sportive. Assolutamente normale per uno che, parole sue, non ha più nemmeno una coppa delle tante vinte.
Una volta, aveva smesso da poco, andai a trovarlo a Forte dei Marmi per parlare di una collaborazione con la rivista che dirigevo. Mi ospitò nella sua bellissima villa a due passi dal mare e quando gli chiesi di mostrarmi qualcuno dei suoi trofei, mi accompagnò in una stanza, spalancò la porta e disse: «Ecco il sacrario, se ne occupa Rosaria (la moglie, n.d.r.)». Lì c’erano i ricordi di una carriera, la riproduzione della coppa vinta al Roland Garros. Ora è sparito tutto, non si capisce bene se a causa dei ladri o dell’incuria. Ma Adriano è fatto così, il passato non gli interessa, lui pensa sempre al futuro.
Grande talento sul campo da tennis, ma grande talento anche con le donne. Lui minimizza, da gentiluomo. Ma la verità è che le donne gli sono sempre cadute addosso, anche senza bisogno di cercarle, e lui faticava maledettamente a scansarle. Perché Panatta era un bel ragazzo, fascinoso, simpatico, uno che ci sapeva fare.
Un giorno mi telefonò, dovevamo parlare di alcune cose di lavoro. Era in un momento difficile della sua carriera e si era rifugiato, come faceva spesso, a Reggio Emilia a casa di Chiarino Cimurri, un amico che gli voleva davvero bene. «Vieni qui, sto a casa di Chiarino da solo, parliamo, mangiamo un boccone e poi torni a Bologna».
Fu una serata divertente, fatta di racconti e di confidenze, naturalmente le sue perché le mie non erano interessanti. Adriano si mise in cucina e preparò un piatto di spaghetti all’amatriciana (ottimi). A un certo punto, quando il clima mi sembrò sufficientemente confidenziale, gli feci la domanda che mi frullava in testa da una vita: «Quanto avresti potuto vincere di più se ti fossi allenato con maggiore continuità e avessi fatto la vita da atleta?».
La sua risposta fu fulminante: «Se avessi fatto come dici tu, non sarei stato Adriano Panatta, ma un altro giocatore. Io mi preferisco così e tu?». Non è difficile immaginare la mia replica: «Hai ragione tu, come sempre».
Qualche mese fa gli chiesi di intervenire a una radio con cui collaboro e lui accettò di buon grado. Doveva restare in collegamento una decina di minuti, invece rimase a parlare per tre quarti d’ora, regalandoci aneddoti e battute fulminanti. Rievocammo molti episodi della sua carriera e qualche piccola disputa personale. Adriano ammise che qualche volta, per la legge dei grandi numeri, avevo ragione. E aggiunse che in fondo ci siamo sempre voluti bene. Ed è la verità. Quando il conduttore mi chiese se avevo qualcosa da chiedere a Panatta che non gli avessi mai chiesto, risposi che il mio rimpianto era di non aver mai scambiato qualche colpo a tennis. E lui:«Mi sa che dovevi chiedermelo prima, ora è un po’ tardi».
Oggi quel ragazzo che conosco da quasi mezzo secolo compie 70 anni. Ogni 9 luglio gli mando un messaggio di auguri al quale Adriano risponde in tempo reale. Ma questa volta lo chiamerò per ringraziarlo delle tante emozioni che mi ha regalato.