Paolo Malaguti con Se l’acqua ride (Einaudi) è in finale del Premio Campiello, insieme a Andrea Bajani con Il libro delle case (Feltrinelli), Giulia Caminito con L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani), Paolo Nori con Sanguina ancora (Mondadori) e Carmen Pellegrino con La felicità degli altri (La nave di Teseo). Il verdetto il 4 settembre
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C’è un giorno nella primavera del 1966, l’anno dell’alluvione, in cui il ragazzo Ganbeto, veneto di Battaglia Terme, provincia di Padova, si sente perduto: ha visto suo padre confabulare con qualcuno davanti alla Fabrica (con una b sola) e pensa che il genitore – trasformato Ganbeto in una sorta di sacrificale Isacco – stia confabulando per farlo assumere lì, finita la scuola media.
Ganbeto si sente tradito perché non vuol vivere per gli schei che pure gli cambierebbero la vita: desidera continuare il mestiere, seppur declinante, di nonno e padre.
Ganbeto fa parte del popolo dei fiumi, dei barcari che fanno commercio per acqua, e ha assaggiato l’estate prima l’avventura sul burcio di famiglia, Teresina.
Ha viaggiato fino a Pellestrina e Chioggia, agli Alberoni e finalmente, come per incanto, sulle lame bianche dell’acqua ha visto comparire Venezia. In quest’esperienza salgariana – secondo Ganbeto, ma noi avvertiamo pure suggestioni letterarie che portano a Huck Finn – crede di trovare persino l’amore, la ragazza Lucia che da una mano in un emporio all’estremità del Lido.
Se l’acqua ride di Paolo Malaguti svela due anime, preso com’è da una serie di dualità che si aprono a bivio, e vengono dalla foce comune di un passaggio tra mondo vecchio e mondo nuovo: ci sono il dialetto e l’italiano, una vita da zingaro e la disciplina di scuola, il vecchio cesso all’aperto e il gabinetto in casa, il fiume su cui trasportare pietre, farina e zucchero, e la Fabrica delle future alienazioni, mentre la tv con Carosello fa da specchietto per le allodole al nascente impero dei consumi.
Nella scrittura sorvegliata di Malaguti convivono la lingua del popolo (dialettale, appunto) e quella del progresso: si mescolano rispecchiando nella forma il contenuto di una trasformazione in atto – e non è un caso se è posto in esergo del romanzo un brano di Luigi Meneghello.
Costruzione letteraria e virtuosismi stanno nascosti in capitoli che si spiegano bene nel fluire della storia (con la minuscola e con la maiuscola). Per esempio, quello in cui Ganbeto prova a memoria il 5 maggio di Manzoni aiutato dalla mamma, entrambi a disagio su parole sconosciute che il figlio e la madre equivocano e però sono in qualche modo costretti a ripetere se non a imparare.
Penso anche ai due solidi capitoli finali, uno narra dell’apprendistato presso il meccanico, l’altro, sempre legato al presente “ragionevole” di Ganbeto, che sta diventando uomo, è un bilancio e una resa dei conti con il ricordo di nonno Caronte e della sua mitologizzata barca. Quando deve dire come si chiama, al termine del romanzo, il ragazzo ribadisce il suo nome “paesano” non per regressione ma per definire l’interezza della sua identità.
Il grande merito di Malaguti – che in questo può dirsi sterniano nel senso di Rigoni – è scartare liriche nostalgie, per comunicare piuttosto un forte senso del passato. Una lezione di attenzione. Diceva il nonno a Ganbeto:“Quando senti che l’acqua ride, che gorgoglia, vuol dire che lì c’è una pietra, o il fondo basso, e bisogna starci alla larga”…
IL LIBRO Paolo Malaguti, Se l’acqua ride, Einaudi
Paolo Malaguti è nato a Monselice (Padova) nel 1978. Vive ad Asolo e insegna Lettere a Bassano del Grappa. Ha pubblicato La reliquia di Costantinopoli (Neri Pozza, 2015), Nuovo sillabario veneto (BEAT, 2016), Prima dell’alba (Neri Pozza, 2017) e L’ultimo carnevale (Solferino, 2019).
Il dipinto sulla cover è di Alessandro Sanna