Il 29 luglio, il Chiostro Nina Vinchi ospita Primo Levi a voce alta, a cura di Marco Vigevani e Andrea Kerbaker, in collaborazione con Fondazione Memoriale della Shoah di Milano: una Maratona di lettura da La tregua all’interno de La Milanesiana
Più l’Italia si scopre attraversata da profonde ferite sociali e preda di una barbarie ideologica che arriva a rispolverare persino fascismo e odio di razza, dall’intollerabile sofferenza del nostro passato prossimo ritorna lui, il giusto, Primo Levi, l’uomo e lo scrittore che sa qual è il solco che divide e unisce i Sommersi e i Salvati, che conosce quanto vale un uomo nella disperazione di un campo nazista o nel fuoco di una guerra, e poi nella possibile felicità – in una frase citata di questi tempi come un mantra da magazine femminile – di fare il proprio lavoro.
Non stupisce che Primo Levi vinca tornei letterari un po’ faciloni come il Wimbledon di Robinson, con conseguente proclama a più grande scrittore italiano del secolo scorso (e di questo). Oppure che animi, come un benigno fantasma di “uomo civile”, una lettura non stop a Milano che fa staffetta con le pagine della Tregua, opera di cui pare oggi una benedizione solo il titolo.
Ma quanta inquietudine e angoscia albergasse nell’animo del giusto, tanto invocato in questi giorni, lo ha detto di recente e bene un piccolo libro firmato dal giornalista Carlo Zanda.
Lo abbiamo ripreso in mano mentre un capitolo della Tregua sta per seguirne un altro, per conoscere la storia di Primo Levi in uno snodo essenziale della vita, mentre rifa alcuni conti con se stesso, conti di definizione e di progettazione del futuro.
L’episodio raccontato da Zanda in Quando Primo Levi diventò il signor Malabaila (Neri Pozza, 2019) è l’avventura per certi versi bizzarra di Levi autore di Storie naturali, il libro di racconti che nel 1966 doveva segnare il suo ingresso – abbandonata la memoria di Auschwitz, bruciante ma editorialmente cucinata al fuoco lento dei rifiuti – tra gli “scrittori normali”. Invece si registra un impiccio soltanto all’apparenza curioso.
Einaudi, nella persona di Roberto Cerati, chiede al chimico torinese di trovarsi uno pseudonimo. Il motivo è all’apparenza di pura natura commerciale, uno stratagemma per vendere più copie: il nuovo Levi deve ricordare il meno possibile al lettore il Levi già famoso come testimone della Shoah.
Cosí, per la seconda volta, Primo Levi si vede rinnegato. Ad Auschwitz il suo nome era stato occultato da un numero, qui da un nom de plume scelto da lui stesso dopo un iniziale e comprensibilmente risentito stupore. Damiano Malabaila. E lasciamo a Zanda, giornalista e saggista, scovare tutte le implicazioni, sociali e psicologiche, persino enigmistiche, del nom de plume; fermo il fatto che “perdere il nome” è un’evenienza dolorosa perché – al di là dei simboli – concretissima.
Nel libro, camminiamo tutti i giorni nelle scarpe di Levi da casa sua a via Biancamano, incontriamo il brillante gruppo intellettuale che si muove intorno a Einaudi nella Torino in trasformazione degli anni Sessanta, studiamo una per una le mosse di una partita a scacchi con la vita in cui il “salvato” Levi sceglie spesso per vocazione o per la durezza dell’assedio subìto la mossa del cavallo.
Riviviamo intanto un dubbio ricorrente perché profondamente connesso con l’identità. Levi non è sicuro se sarebbe stato uno scrittore senza Auschwitz, e non riesce a sentirsi uno scrittore appieno neppure nel 1966: i suoi stessi ex compagni di lager sono pronti a svalutarlo, ogni volta che lascia i panni del memorialista, nel caso specifico per abbracciare la troppo frivola fantascienza.
È noto il conflitto con Jean Améry, cui è dedicato uno dei capitoli cruciali de I sommersi e i salvati, ne sorge più tardi uno poco raccontato, qui ricostruito da Zanda, che verrà risolto postumo con una minaccia di denunzia della famiglia. Protagonista Giorgio Chiesura, antifascista veneziano, autore di Devozione – si tratta di un romanzo uscito per Mondadori e poi, dopo il ritiro dalle librerie, emendato dallo stesso romanziere veneto; qui Levi subisce un durissimo attacco personale, viene presentato con toni irrisori come il Giusto, l’eroe senza macchia che non sbaglia mai pur se, per chissà quale convenienza, sarebbe pronto a dimenticare gli orrori attraverso cui è passato.
Quel che succede dopo – il suicidio di Primo Levi –, esula dal racconto di Zanda, esce cioè dal focus dell’indagine, ma è comunque abbondantemente predetto: il libro, che ci indirizza attraverso una ricca bibliografia, prepara il terreno per capire l’addio di Levi alla vita. Ma questo è un capitolo in cui il signor Damiano Malabaila fa solo la comparsa. Né oggi o domani ci saranno abbastanza pagine della Tregua da leggere, né omaggi postumi o invocazioni rivolte a un uomo divenuto mito da mettere sul piedistallo, per dimenticare quel giorno, nell’aprile del 1987.
I LIBRI Carlo Zanda in Quando Primo Levi diventò il signor Malabaila (Neri Pozza, 2019), Primo Levi, La tregua (Einaudi).
L’ultima settimana della vita dello scrittore torinese è ricostruita in Primo Levi. Una vita (Utet, 2002) di Ian Thomson.
Ancora su Levi, su Allonsanfàn, qui