Qui dall’asettica Milano del Covid, sembra piuttosto distante, carnale e metafisica a un tempo, l’attesa agitata di Alfredo Braschi, in una pensione sul (per me esotico) lago Albano.
Braschi invecchiato, ex ragazzo prodigio della mala, aspetta qualcosa – dove qui fa ansia solo parlare di attesa – e ricorda una vita deragliata e bellissima, da sodale di un criminale con le stigmate della ferocia, Laudovino De Sanctis (con la ct), alias la Belva, alias Lallo lo Zoppo, che ha tinto di sangue la Roma dei Settanta, basti ricordare la rapina di piazza dei Caprettari: ghigno che non si dimentica, i segni della tbc ossea fatta da bambino, in mano il bastone (del comando).
Il tempo passato e la giovinezza perduta sono il quadro, espressionista quasi, di un racconto semplice e violento, composto da Aurelio Picca come se rovesciasse su tela colori fortissimi. E, insieme, questa felice ferocia testimonia che non sta scrivendo il solito romanzo ma che vuol esibire brandelli di carne vera e rosso sangue.
Il timido lettore milanese prima è quasi intimorito, poi si appassiona al funzionamento di una scrittura scarna e petrosa, chiara e temporalesca, incurante comunque dell’accademia, confondendo volentieri Aurelio Picca (1960, Velletri) con il suo Braschi “matto sparato” che, in un inno rovesciato alla giovinezza, va in giro armato di una pistola da mattatoio.
Picca scrive con scaltra naïveté ad alta tensione, Braschi vive allo stesso modo, vuole uccidere o morire, ha in testa una ninna nanna per la figlia Monique e per quella di Lallo, che porta lo stesso nome, e intende solo di vendetta.
No spoiler, comunque, ma tanto siamo a distanze siderali dalla serialità delle varie novelle criminali o di suburra, trovandosi il senso del racconto tra aforismi survoltati (“La tristezza è superiore alla morte. È il fantasma della morte..”) e frasi che hanno la verità pop – e siamo di nuovo a un riferimento pittorico – delle tele di Schifano, il quale non per caso qui fa un featuring, insieme al Califfo e altri noti di un mondo irrimediabilmente scomparso.
Di Picca, il timido lettore milanese conosceva un pugno di pagine e uno stravagante racconto di Niccolò Amanniti, in cui Aurelio fa il killer dandy in sandali Ferragamo. Si ripropone ora di leggere la sua opera in toto a partire, naturalmente, da Arsenale di una Roma distrutta (Einaudi).
Tra parentesi. Luca Doninelli, scrittore testoriano e da sempre appassionato, in una nota di lettura su Il Giornale, racconta di quando Laudovino per la prima volta incontra il ragazzo Braschi, e gli fa dono di una Ferrari. “È un momento religioso” scrive Doninelli. Vero. Non abbiamo neanche sorriso. Grande Picca.
IL LIBRO Aurelio Picca, Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (Bompiani)
Credit: Maurizio Valdarnini