L’Argentina sta uscendo faticosamente da un lockdown da record, decretato il 20 marzo scorso (con le scuole chiuse dal 16) e durato più di 4 mesi. Un lockdown preventivo, deciso al 128esimo caso diagnosticato di Covid, che ha effettivamente permesso di mantenere il tasso di letalità attorno all’1,8-2 per cento, ma non ha impedito al virus di diffondersi. Tanto che l’Argentina ha superato i 250mila contagiati, con circa 4.700 morti.
All’inizio di maggio, complice un autunno che continuava ad assomigliare di più a una gloriosa fine estate sine die, ci chiedevamo se i numeri ancora bassi sui contagi segnalassero uno scampato pericolo o che l’oceano si stava ritirando prima dello tsunami. E ancora oggi non sappiamo rispondere.
È ragionevole pensare che sia stato (anche) il lockdown precoce e severo a contenere il numero dei morti (104 per milione di abitanti, contro il 541 del Cile, i 582 dell’Italia e i 483 del Brasile). Ma il disastro economico e sociale della pandemia resta, a maggior ragione in un Paese che, mentre l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarava la pandemia a livello mondiale, stava negoziando con il Fondo monetario internazionale e con gli altri creditori le condizioni per evitare un nuovo default.
In questo contesto, il dilemma tra salute pubblica ed economia si fa ancora più doloroso: il 40 per cento delle famiglie a basso reddito vive di lavoro precario. Sono loro che pagano le conseguenze economiche della quarantena, senza ricavarne benefici, visto che la suddetta quarantena devono farsela in 5 in una baracca.
L’80 per cento di contagi sono concentrati nella città di Buenos Aires e nella sua area metropolitana, mentre in alcune provincie – per esempio La Pampa, Formosa e San Luís – non si sono nemmeno registrate morti. Qui, dunque, il lockdown già da alcune settimane è stato ammorbidito: i bar hanno ripristinato il servizio al tavolo, sono possibili le visite a familiari…
Nell’area di Buenos Aires, invece, solo una settimana fa hanno riaperto i parrucchieri e i negozi non essenziali (a cui era comunque permesso di vendere online) e si sta discutendo di consentire, a partire da lunedì 17 agosto, ai bar di collocare qualche tavolino all’aperto e alle persone di praticare sport che non prevedano contatto fisico, come tennis e golf. La condizione perché questo avvenga? Che il famigerato valore T0 non si allontani troppo da 1.
Di fatto, la sensazione è che il governo della città, di destra e all’opposizione rispetto al governo centrale, non sia disposto a fare un passo indietro e che voglia procedere con le riaperture graduali a qualsiasi costo. Un po’ per compiacere i propri elettori, che nella polarizzazione del discorso pubblico (anche qui imperversa la polemica sui runner, come in un brutto remake di un brutto film) si sono schierati contro la quarantena. Ma anche perché la capitale è la zona dove si concentra l’economia del Paese, che non può reggere ancora a lungo il blocco delle attività produttive.
Buenos Aires, la ciudad de la furia, la città che non dorme mai, la città con la più elevata densità di librerie al mondo, la capitale del tango, vive dell’indotto della sua vita di notte: milongas, bar, scuole di tango, negozi di scarpe e accessori, sale di cinema e teatri indipendenti, centri culturali. Iniziative di successo che, nella pandemia, hanno dovuto fare i conti con la loro fragilità: la dipendenza dal qui e ora, dall’incontro fisico, dalla presenza.
Si danno da fare come possono, con iniziative online a offerta libera, presentazioni e dibattiti via zoom, streaming su Facebook o YouTube. Ma non è la stessa cosa, ti ritrovi a pensare mentre cammini (il trasporto pubblico è riservato solo ai lavoratori essenziali) in una città deserta alle 9 di sera, quando fino a pochi mesi fa alla stessa ora, in Avenida Corrientes, la strada dei cinema e dei teatri, c’erano le file davanti alle casse. Ora ti fanno compagnia i cartelli di “Vende” e “Alquila” (affitta) appesi alle finestre di locali storici come il bar Aurora, famoso per gli spettacoli di tango. Le macchine passano rapide. Lo spazio pubblico non è più uno spazio del quale appropriarsi per viverci, ma uno spazio da attraversare per andare a fare cose indispensabili, finire prima possibile e poi rientrare in casa.
In tutto questo, la scuola è la grande dimenticata. Con la sospensione delle lezioni dal 16 marzo, una settimana dopo l’inizio dell’anno scolastico australe, i ragazzi che avevano iniziato un nuovo ciclo non sono nemmeno riusciti a conoscere i compagni. La didattica si è spostata tutta sulle piattaforme online, mettendo in evidenza le già note e strutturali disuguaglianze sociali. Le scuole (non necessariamente private) dei ricchi, dove lavorano professori ricchi (relativamente, certo) dotati – alunni e professori – di computer, tablet, smartphone, video camera, connessione Internet con Giga senza limiti. E le scuole dei poveri, dove è già tanto trovare un cellulare antidiluviano o un computer a manovella da condividere con altri membri della famiglia. Per non parlare delle scuole rurali, in zone isolate , nemmeno raggiunte da Internet (provate a immaginare la sensazione di guidare per 5 giorni senza incontrare anima viva: benvenuti nel Paese dei grandi spazi).
Quando la chiusura delle scuole era nell’aria, ho preparato i miei studenti alla probabile chiusura “per alcuni giorni”, perché metterli davanti al fatto compiuto sarebbe stato troppo vigliacco. Ho giurato e “spergiurato su Dio e sul mio onore”, come dice De André, che vedersi su Meet sarebbe stato divertente, sentendomi bugiarda e al tempo stesso convinta che fosse giusto dirlo in quel momento.
I primi giorni, ogni collegamento finiva con la domanda: “Prof, quand’è che ci faranno tornare a scuola?”, alla quale l’unica risposta eticamente accettabile era: “Non lo so”. Ora, alla ripresa dopo le vacanze invernali, non chiedono più. Si collegano, a volte rassegnati, il più delle volte diligenti, intervengono, fanno i compiti, chiedono il permesso di andare in bagno, e solo quando la loro faccia si blocca e si pixellizza ti accorgi che non sono davvero loro, ma immagini costruite avvicinando miliardi di puntini colorati.
I primi mesi eravamo tutti iperattivi, era un fiorire di conferenze, lezioni extra, laboratori. Ora è subentrata l’inerzia. Aspettiamo Godot. Tremiamo ogni volta che arriva una stravagante proposta italiana sulla scuola, temiamo che possa ispirare il ministro dell’Educazione, dal momento che l’Argentina guarda all’Italia come apripista sulla riapertura delle scuole.
A volte vorrei essere il personaggio creato da qualche scrittore alle prime armi, quando alla fine del racconto si sveglia nel suo letto tutto sudato e scopre di avere fatto un brutto sogno. E invece no. È tutto vero.
Per approfondire la situazione dell’Argentina segnaliamo i documenti dell’Ispi, Istituto di politica internazionale, consultabili qui.
Nella foto in apertura la Diagonal Norte, in pieno centro a Buenos Aires, durante il lockdown. Credit: Francesca Capelli
- Francesca Capelli è giornalista professionista, scrittrice per ragazzi e traduttrice. Vive a Buenos Aires, dove alterna la professione di docente alla ricerca in campo sociale e dove ha ambientato il suo romanzo L’estate che uno diventa grande (Sinnos), dedicato alla dittatura argentina. Ha pubblicato anche libri per ragazzi: Il lettore di pensieri e Il cacciatore di aria (Raffaello)