Due monologhi per due solitudini, a capitoli alternati, Ale67 e Delphi70, con un punto di convergenza: l’incontro di sesso (e basta) a Modena Sud, combinato su un sito di scambi, che suggellerà le loro storie, oltre a fornire un significato al romanzo.
Lui è un ex tossico senza arte né parte, perseguitato dal ricordo di una (angelica) sorella morta. Lei, impiegata e sposata con due figli, è la normalità fatta persona, che ha preso coscienza della vacuità della propria vita: insomma, i due si assomigliano, possono avere un punto in comune. Forse proprio per questo, dopo aver perso o non aver mai avuto fiducia nell’amore, sembrano cercare l’autenticità, quale che essa sia, nel sesso, che dell’amore è l’apparente contrario.
Finta pelle è il romanzo di una doppia ribellione o impossibilità di vivere. Ma è troppo vera – anche se proprio per questo preda di qualche stereotipo – la storia di lui e del Bar della Stazione di paese dove i tossici gravitano per tirare giornata, prima di partire per le loro disavventure nella sfigata provincia tra Bologna e Ferrara.
La ripetitività di una rovina accettata come destino, quasi con noncuranza, spedisce in un loop consapevole e maledetto la versione di Ale67, che rimarrà chiuso nella sua intelligenza del mondo e nella redenzione senza alibi di altre dipendenze: il culto del corpo, il lavoro alienante, il sesso in Rete. Ma davvero si è salvato, o ci si poteva salvare, da certi anni Ottanta?
Di certo, per lunghi tratti la versione di Ale67 fa ombra a quella di Delphi70, riassunta in un cursus sentimentale a bassa intensità che la scodella in una famiglia d’ipocriti. Almeno finché non emergono dallo sfondo la figura di una collega da ammirare, la single Carla, e pure, in modo meno prevedibile, quella di Paolo, il marito piccolo borghese solo in apparenza scialbo.
Ecco. Riescono gli elementi più romanzeschi di Finta pelle, riassunti nel finale – relativamente a sorpresa, nonostante l’aletta di Marsilio faccia spoiler – ad accordarsi senza sminuirla alla realtà del racconto? Risponda chi legge.
La nostra impressione è che il libro di Saverio Fattori (Molinella, 1966) convinca ogni volta che riserva allo stato delle cose – succede più spesso nel monologo di Ale67 – il distacco di uno sguardo freddo, crudele e quasi antipatico. Non per caso, per la crudezza tecnica nel discutere di sesso e per la descrizione di una ripetitiva e ottusa schiavitù lavorativa, Fattori è stato accostato a Houellebecq, oppure – ma questo fin dal debutto – agli autori della cosiddetta letteratura aziendale.
Dell’irriducibilità da outsider e della costanza del suo scrivere, parlano altri romanzi, come Alienazioni padane (Gaffi, 2004), l’esordio che era piaciuto a I Quindici, o 12:47 strage in fabbrica (Gaffi, 2012): e si sappia che esisteva già un Ale-voce narrante, non alto di statura, con i Radiohead sparati in cuffia.
A proposito. In Finta Pelle c’è, come in tutti i libri di Fattori, tanta musica, che serve bene la storia. Dal sofferto Pino Daniele di Nero a metà agli Iron Maiden che vanno in vacca, dalla disco a Luigi Nono – scambiato per jazz dalla solita donna che non ne capisce -, dall’ibrido Tutu di Miles Davis che rimbomba nell’auto del leader dei tossici, ai Tiromancino, che si prendono una citazione-mazzata per romanticheria importuna, al limite dello stalking.
IL LIBRO Saverio Fattori, Finta pelle (Marsilio)