Esce di nuovo in sala, dopo essere stato scacciato dal Covid, Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, il biopic sulla vita del pittore naif Antonio Ligabue, nato a Zurigo, morto a Gualtieri (Reggio Emilia), crocifisso in vita da un fisico disgraziato, dal disagio mentale, dalla crudeltà degli uomini.
Dice Elio Germano – un Ligabue corrucciato e animalesco, una tigre sofferente davanti alla tigre libera che verrà poi dipinta sulla tela – che si è portato a casa l’Orso d’argento di miglior attore a Berlino: “È una persona che sulla carta sembrava sbagliata e fuori da ogni tipo di schema, sicuramente una persona non omologata. Grande la lezione che ci regala, quella di un uomo che ha lottato tutta la sua vita per rimanere se stesso”.
Se un qualche riferimento filmico volesse rintracciarsi, ha detto alla Berlinale Giorgio Diritti, autore di Il vento fa il suo giro e Un giorno devi andare, è nel Turner di Mike Leigh (mica poco): il Ligabue storico di Bucci-Nocita non c’entra e non è stato nemmeno visto da Germano, che non voleva farsi influenzare.
Forse per la medesima e opposta ragione, finora non siamo andati a vedere Volevo nascondermi (e non solo perché il precedente film di Diritti era atroce). Non volevamo sovrapporre il nuovo Ligabue a quello vecchio, della Rai, impersonato da un gigantesco Flavio Bucci. Andò in onda dal 22 novembre al 6 dicembre 1977 per la regia di Salvatore Nocita (ma ebbe pure una riedizione cinematografica) e fece in qualche modo storia incollando, come accadeva a un popolo ancora primitivo di fronte alle grandi trasmissioni della modernità, l’Italia alla televisione.
Comunque mentre auguro buoni incassi a Volevo nascondermi, mica voglio boicottarlo!, ricopio qui le parole che avevo scritto per Bucci, scomparso il 20 febbraio del 2020.
Per la mia generazione, Bucci è stato Ligabue, certo, ma pure il pianista cieco di Suspiria, anche se lì aveva nascosti gli occhi, indimenticabili, e soprattutto fu lo stralunato protagonista del dimenticato Maledetti, vi amerò, esordio fulminante più per tempismo che per arte di Marco Tullio Giordana nel 1980.
Bucci qui era Svitol, un fuori corso dalla vita che si ritrovava in un’Italia e in una sinistra (armata) che non riconosceva più. Col suo cappello peruviano (anzi venezuelano), divenne l’emblema del cosiddetto Riflusso.
Ma le sue interpretazioni al cinema e in tv, e in teatro, dove eccelleva, riempiono fino agli anni Zero le schermate di Wikipedia.
Bucci era infatti un grande attore che passa adesso per un grande caratterista, forse anche perché aveva fatto una grande, grandissima scomparsa.
Raccontava l’anno scorso ai giornalisti che lo avevano stanato nella casa famiglia dove sopravviveva: “In teatro guadagnavo anche due milioni al giorno. Per fortuna ho speso tutto in donne, vodka e cocaina. Scarpe e cravatte che non mettevo mai. L’alcol mi ha distrutto? Lasci perdere discorsi di morale, che non ho. E poi cos’è che fa bene? Lavorare dalla mattina alla sera per arricchire qualcuno?”.
Insomma dove mai si trova uno che la tira, ma non se la tira? Grande, pazzo, saggio Flavio Bucci.
L’immagine, che data ai Settanta e sembra allo stesso tempo reale e simbolica, con quella fiamma che incendia un diecimila lire, è un fotogramma da La proprieta non è più un furto di Elio Petri.