Sembra preistorico il tempo in cui un nevrotico e occhialuto intellettuale, più d’aspetto che di spessore – lo nota lui paragonandosi a Philip Roth – con i suoi film faceva ridere il mondo civilizzato, cioè Manhattan e capitali europee, e si portava a letto le donne più belle.
Due tempeste hanno reso Woody Allen (1935) un fantasma a New York: l’accusa di pedofilia nei confronti della figlia Dylan, capo d’imputazione maggiore e tutto mediatico, poiché mai arrivato in giudizio, della intricata querelle con Mia Farrow. Cui segue, dopo un sereno periodo artistico e famigliare accanto a Soon-Yi, la campagna del #MeToo. Allen è preso tra i bersagli, e processato da media e colleghi una seconda volta per l’identico reato, cosa non usuale nel diritto.
In USA ora nessuno vuole più lavorare con lui: per girare Rifkin’s Festival, il regista si è auto esiliato in Spagna e, mentre la prima del film è segnata per il 18 settembre al Festival di San Sebastián, dalla sua vera casa Allen sparge “realismo pessimista” a piene mani.
Dice in sintesi che il Covid ha dato il colpo di grazia al suo mondo, alle sale da cinema di New York e, mentre Manhattan si sente male, neanche lui sta benissimo: “Potrebbe essere il mio ultimo film” dice. “Ho 84 anni, tra poco sarò morto”.
Raggi di sole? Be’, quasi alla chetichella, alla fine gli hanno pubblicato anche in USA – con degnazione, dopo un rifiuto – l’autobiografia A proposito di niente (La Nave di Teseo), che qui ispira qualche riflessione.
La prima. Woody Allen non è lucido (o si sforza di non esserlo) in un punto solo del suo memoir. Quando si augura – sopravvalutando l’intelligenza del lettore – che questi non abbia comprato o scaricato il libro solo per leggere di lui, di Mia, Dylan, Ronan-Satchel e Soon-Yi.
Il re dell’understatement si sopravvaluta, credendo che di lui ci interessi sapere che cosa pensa esattamente di Tennessee Williams o degli autunni di Central Park. Oltretutto Allen un po’ – e molto umanamente – si contraddice: dedica alla vicenda che gli ha distrutto la reputazione un centinaio di pagine, costruite senza palesi sacrifici del suo humour nero ma con una meticolosità degna del processo mai celebrato – mentre dedica di media solo due o tre pagine per ogni film, riuscito o meno.
Lo scandalo d’altronde non lo ha toccato – spiega con una battuta – salvo costringerlo a uscir di casa, lui innocente, “con occhiali e baffi finti”, citando la gag dei genitori del rapinatore di Prendi i soldi e scappa.
Ognuno può farsi la sua idea se Allen sia sincero sul caso Farrow. Noi siamo sicuri che menta nel resto del libro – scorrevole, divertentissimo e cupissimo a un tempo, denso di aneddoti e battute. Lo fa tutte le volte che si raffigura estraneo all’empireo dei maghi della celluloide – lui peraltro abile come prestigiatore dilettante.
Allen insiste troppo (per essere vero) sulla sua mancanza di genio – il genio è l’elemento che per esempio sì è dimenticato di aggiungere in Settembre, facendone un flop drammatico – e sull’unica esigenza di avere tra le mani una sceneggiatura di buon artigianato, niente di più, niente di meno. Oppure civetta un po’ riguardo la sua imperfezione quando gira, sull’incompetenza tecnica e la pigrizia che lo porta spesso a trovarsi disperato in fase di montaggio.
Ma è in questa sottovalutazione costante che si manifesta l’understatement radicale che appartiene tanto all’uomo Allen quanto all’artista. Come nei suoi migliori film comicità e dramma si intrecciano in un memoir che racconta in maniera convincente una vita illuminata dal talento e dal sentimento della precarietà – moriamo tutti, alla fine, so what? Che differenza fa, si domanda Allen, tra l’esser ricordato come un regista o come un pedofilo?
Restano agli atti un’infinità di particolari curiosi sull’infanzia di Allen e sui debutti da battutista e da stand up comedian, sui film, amati e non, serviti da una serie di battute appartenenti al Woody che gioca vertiginosanente al ribasso di se stesso (e del mondo intero). E molti gustosi episodi spiegano l’uomo. Esempio: non rifiuta i premi, ma non si reca a prenderli di persona (Oscar compresi), così è particolarmente divertente una trasferta a Oviedo, onorato dai reali di Spagna. La misantropia ostentata non cede nemmeno di fronte a proposte che parrebbero allettanti: invitato dal suo mito, Ingmar Bergman, ad andarlo a trovare nell’isola romita di Fårö, Allen lo snobba per futili idiosincrasie simili a quelle che gli impediscono di passare un week end nell’odiata campagna. Meglio Manhattan, quella di tanti anni fa.
IL LIBRO Woody Allen, A proposito di niente (La Nave di Teseo)
Nelle foto: la statua di Oviedo (John Paul). In apertura: Woody giovane (Alan Light licensed under CC BY 2.0)