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Paolini: «La mia idea bellissima per salvare il teatro dalla miseria»

«C’è un prima e c’è un dopo. Un passato e un futuro. Ho sempre raccontato storie del passato, a partire da Vajont. Poi ho deciso di guardare avanti, e ho scritto uno spettacolo che avrebbe dovuto andare in scena a marzo. Il giorno prima è arrivato il decreto che chiudeva i teatri. Tra un mese dovrei ripartire. Ma mi interrogo. Il futuro che racconto nello spettacolo non è più quello che si immagina oggi la gente».

Nel chiostro Nina Vinchi del Piccolo Teatro a Milano Marco Paolini parla agli spettatori («siete privilegiati ad aver trovato un biglietto, lo sapete vero?»). Con lui, sul palco, una sedia e un fascio di appunti, che non leggerà quasi mai. Va in scena Teatro fra parentesi. Le mie storie per questo tempo, che è un chiacchierare tra amici ancor più che uno spettacolo teatrale.

Paolini racconta storie e racconta un po’ della sua vita. Il papà ferroviere, lo zio monsignore che lo voleva cardinale e lo portò, bambino, a un’udienza di Papa Paolo VI, il teatro («che proprio non avevo messo in conto»). E poi il successo di Vajont, «quella sera, il 9 ottobre 1997, in tv sulla Rai, quando la gente che faceva zapping si fermò a seguirlo in diretta. Vajont è stato una specie di miracolo. E anche un po’ una condanna» dice con un sorriso. «Oggi, alla fine di ogni spettacolo, quando gli spettatori vengono a salutarmi, sono tanti quelli che mi dicono “E’ stato bellissimo, ma come il Vajont…”».

Che autunno vi aspettate, chiede Paolini al pubblico, che poi siamo noi, sessanta persone sedute l’una a un metro dall’altra. C’è un certo pudore – e timore – a rispondere quello che pensiamo davvero. Lo fa lui. «Io ho paura. La miseria mi fa paura. La miseria che è peggio della povertà». E allora ecco il racconto di un’idea bellissima che gli è venuta in questi tempi così strani. «Se avevo deciso di fare uno spettacolo sul futuro era anche perché non avevo più trovato una storia forte come quella del Vajont. Ma ora una nuova storia bellissima ce l’ho». Bisogna chiedergli esplicitamente di che storia si tratti, in questa serata in cui – per la prima volta – posso fare domande a un attore che sta sul palco.

L’idea si chiama Civica, è qualcosa ancora tutta da definire e da scrivere, una piattaforma dove sarà possibile scambiarsi idee e proposte e anche sostenere finanziariamente le piccole realtà teatrali, quelle che non hanno la forza dei grandi teatri. Aiutarle a non morire.

Paolini la racconta e non è più spettacolo. La racconta come un uomo che ha deciso di iniziare a lavorare a un progetto che dia forza a un futuro debolissimo.

Ci sarebbero ancora altre cose da chiedergli. E anche da dirgli. Perché Vajont è stato certamente un miracolo, come lo chiama lui. Ma tanti sono i miracoli che si sono ripetuti dopo, (I-TIGI racconto per Ustica, Parlamento chimico, Il Sergente, Bhopal 2 dicembre ’84, U 238, I Miserabili, Il calzolaio di Ulisse…).

La chiacchierata di questo Teatro fra parentesi («a me è sempre piaciuto fare teatro fuori dai teatri») si chiude con il racconto di quell’incontro con Papa Paolo VI, «quando gli ho preso un dito e non l’ho mollato. Fino a che lui si è girato e mi ha fatto capire che io, cardinale, proprio non sarei diventato mai. E neppure ferroviere. Sarei stato un attore, e avrei dovuto farmi vedere, mostrarmi agli altri, io che farmi vedere proprio non volevo. “Sarai un attore perché dovrai espiare”». Dice proprio questo Paolini. E poi si asciuga una lacrima prima di farci ciao con la mano.

Foto in apertura credit Gianluca Moretto

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