“Mes que un club”, più che un club, è il motto che campeggia sulle tribune del Camp Nou, lo stadio del Barcellona. “Mes que un jugador” si potrebbe dire di Leo Messi. Perché negli ultimi vent’anni quello tra la squadra catalana e il calciatore argentino è stato molto più che un rapporto di lavoro. Il Barcellona è stato la sua famiglia, la sua casa, il suo tutto. E Messi è stato il simbolo della società blaugrana.
Ora che la telenovela sembra giunta all’inevitabile conclusione si può spiegare meglio il rapporto tra “la Pulce” e il Barça. «Rimango perché non mi è stato permesso di andarmene e non sarei mai andato in tribunale contro il club che amo» le parole di Leo a suggello di un tira e molla durato una decina di giorni. In un certo senso è un epilogo analogo a quello della vicenda tra Conte e l’Inter. Prigionieri di un contratto, legati indissolubilmente per ragioni di soldi. Perché di questo si tratta.
Ma facciamo un passo indietro. Leo Messi è un promettente calciatore delle giovanili della squadra argentina del Newell’s Old Boy quando a 11 anni gli viene diagnosticata una malattia rara, l’ipopituitarismo che provoca una deficienza di secrezione di somatotropina. È un problema ormonale che inibisce la crescita del ragazzo. Le cure costano 900 euro al mese, ma il club non gliele può pagare.
Il direttore sportivo del Barcellona Carles Rexach, che ne intuisce la straordinarie qualità, gli propone di trasferirsi con tutta la famiglia in Catalogna, dove potrà giocare a calcio e curarsi a spese del Barça. Il padre di Lionel, Jorge, firma il contratto su un tovagliolo di carta. È l’inizio della sua lunga avventura in blaugrana.
Messi fa tutta la trafila delle giovanili ed esordisce in prima squadra contro l’Espanyol il 16 ottobre 2004 a 17 anni. È l’inizio di un mito. Con il Barcellona colleziona 731 presenze segnando 634 reti. Macina un record dietro l’altro: vince 10 campionati, 6 coppe di Spagna e 8 supercoppe, 4 Champions League, 3 supercoppe europee e 3 mondiali per club, oltre a 6 palloni d’oro.
Il Barcellona di Guardiola gioca il miglior calcio del mondo grazie a Leo Messi, ma anche a Xavi e Iniesta, due fenomeni che lo mettono nelle condizioni di esprimere tutto il suo straordinario talento.
Il mondo si divide in due schieramenti: i tifosi di Messi e quelli di Cristiano Ronaldo, il fuoriclasse del Real Madrid con il quale si vedranno duelli epici nel Clasico.
Il Barcellona comincia a sfaldarsi quando se ne vanno prima Xavi e poi Iniesta. Messi si sente spaesato, non ha più i suoi punti di riferimento, i suoi fidi scudieri. La finale di Champions League vinta nel 2015 contro la Juventus è il suo canto del cigno.
Da lì in avanti arriveranno soltanto tre titoli della Liga, ma l’Europa diventa proibita. Fino all’ultima umiliazione, l’8 a 2 subito lo scorso 14 agosto nei quarti di finale di Champions a Lisbona contro il Bayern Monaco. È un affronto che Leo non può digerire.
Decide di tagliare il cordone ombelicale che lo lega da 20 anni al Barça, chiede di essere liberato senza il pagamento della clausola rescissoria di 700 milioni prevista del contratto. Una clausola che nessuna società al mondo può coprire. È l’ultimo atto della sua guerra personale contro il presidente Bartomeu, che accusa di incapacità. La Lega Calcio spagnola dà ragione al club e Messi capisce che il progetto di raggiungere il suo mentore Pep Guardiola al Manchester City è naufragato.
Alla fine si arrende, getta la spugna. Potrà liberarsi gratis tra dodici mesi, alla scadenza del contratto, quando avrà 34 anni e probabilmente qualche acciacco in più.
In fondo è un tramonto triste di una stella che ha illuminato il calcio mondiale per vent’anni.
Leo Messi rimarrà per sempre un fenomeno incompiuto.
Il paragone con il suo connazionale Diego Armando Maradona rimarrà insostenibile. La differenza fondamentale tra i due grandi numeri 10 del calcio argentino è la personalità. Quella personalità che ha consentito al Pibe de Oro di vincere un mondiale praticamente da solo nel 1986 in Messico.
Con la maglia dell’Albiceleste Leo ha sempre avuto un rapporto difficile, non ha mai vinto nulla di importante, non è mai riuscito a essere un leader. Questione di carattere.
Leader si nasce, non si diventa. Leader è quello che discute con l’allenatore, che rimprovera i compagni ma sa anche sostenerli nei momenti difficili, che fa tremare le mura dello spogliatoio quando serve per dare la scossa. Diego era questo. Leo è esattamente l’opposto: è timido, taciturno, ombroso, introverso, quasi autistico nella sua difficoltà di comunicare col mondo esterno.
Le sue doti tecniche sono straordinarie, è capace di inventare giocate che sfidano le leggi della fisica prima ancora che quelle del calcio. Ma non sopporta chi ha personalità: per questo Ibrahimovic rimase al Barcellona soltanto una stagione.
È capace, come lo era Maradona, di decidere una partita con una giocata imprevedibile. Ma non è mai stato, com’era invece Diego, un trascinatore. Questione di carattere o forse, più semplicemente, di Dna.
Ora giocherà la sua ultima stagione a Barcellona con un carico psicologico pesantissimo: il ciclo vincente è esaurito, c’è bisogno di un nuovo progetto. Ma di questo progetto lui non farà parte. Rischia di essere un peso, ogni sua prestazione sarà vivisezionata, se non giocherà da Messi finirà inevitabilmente sotto processo. Perché nel calcio non conta quello che si è fatto ieri, conta solo quello che si fa oggi. E i tifosi dimenticano in fretta.
Leo potrà comunque consolarsi con un ingaggio che nessun altro calciatore al mondo ha mai avuto: 133 milioni di euro lordi all’anno. 133 milioni di buone ragioni per non tradire, parole sue, il club che ama.
Credit foto in apertura:“El Clásico foosball” by GordonsPictures is licensed under CC BY-SA 2.0
Credit foto nel testo: “La Pulga” by San Diego Shooter is licensed under CC BY-NC-ND 2.0