È lui il più grande attore francese in carica, quello che, per esperienza e per una sorta di dono, sa illuminare lo schermo appena appare, tirar su di morale la commedia che boccheggia, mettere pepe in un polpettone, essere più congruente degli altri alla realtà di un’opera, se il testo e l’immagine funzionano già da sole. Ormai si dice: vado a vedere un film di Fabrice Luchini, anche se è firmato, che ne so, Leconte oppure Ozon.
Robert Fabrice Luchini (Parigi, 1951) è stato un giovane magro e indeciso a spasso per i proverbi intellettuali di Éric Rohmer – gli ha fatto pure un Parsifal su un cavallo di legno – e a Parigi registra sempre il pienone, quando a teatro incarna Bardamu che sbarca in America – ma non vive di solo Céline, da “anziano” si muove bene con recital di versi e testi classici.
Intanto ha infilato una sfilza di commedie particolarmente riuscite, recitate da sofisticato parigino, amante timido o arcigno intellettuale, con riuscite punte di cattiveria – o di dispettosità, che è la forma di cattiveria che gli riesce meglio – fino a Molière (Alceste) in bicicletta e a La corte, Coppa Volpi per lui a Venezia 2015 – d’altro, in un’orgia di candidature ha vinto un unico César con un Lelouch.
Il “film di Fabrice Luchini” che vediamo ora è Il meglio deve ancora venire, degli acclamati Matthieu Delaporte e Alexandre De La Patellière, sceneggiatori e registi di provato successo vedi Cena tra amici (2012). Che, stavolta in dormiveglia, purtroppo, hanno scritto un two buddies movie molto, molto telefonato, con i soliti due amici che più diversi non si può, nella più classica commedia degli equivoci: sì, c’è una grave malattia di mezzo, ma ciò non cambia il livello di originalità della proposta.
Fabrice e Patrick Bruel aspettano l’uno la morte dell’altro, per colpa di uno scellerato scambio di radiografie. Chi dei due è un perfettino quasi ossessivo che lavora all’istituto Pasteur e, divorziato, fingendo di non riuscire più a toglierla, esibisce ancora la fede al dito?
Chi è invece il pasticcione donnaiolo che non ha raccolto nulla dalla vita e tutto ha generosamente sprecato? Chi dei due propone, per l’estremo commiato, visite all’antico collegio e chi notti selvagge?
Facile rispondere e accompagnare il duo in perenne conflitto in un pellegrinaggio, pieno di intoppi, capricci, ripulse, accettazioni, accelerazioni e marce indietro, che svelerà – ma avevate qualche dubbio? – a entrambi il significato di una vita più vera.
Spiace dire che sia tutto piuttosto prevedibile – anche se al cinema non è affatto detto che sia un male: una certa preveggenza può essere fonte di piaceri da pregustare. Così come piace vedere il più grande attore francese in carica esibire tutto il suo repertorio di smorfie idiosincratiche e rabbie trattenute, di tic e di fragili sorrisi sospesi sull’incertezza dell’esistere. Bravissimo Fabrice dunque, cui fa ottima compagnia una vecchia conoscenza, Patrick Bruel, spesso nascosto dietro un sorriso da vecchio ragazzo. Non c’è che da sedersi, dopo essersi riforniti di pop corn.