È il suo più bel racconto, leggilo, mi disse un professore alle medie. Inverno di un malato. Alberto Moravia. Intorno al nome del quale Moravia, nelle case borghesi milanesi degli anni Sessanta, non è che ci fosse grande amore. Non è che i libri dell’accigliato esistenzialista Alberto Pincherle stessero proprio in prima fila accanto ai Chiara e ai Soldati, ai Cassola e ai Pratolini. Ecco, trovavi Gli indifferenti, sdoganato da Citto Maselli al cinema con Michele-Tomas Milian e Carla-Claudia Cardinale, e i primi racconti, erano gli unici sugli scaffali.
La verità è che Moravia era… “spinto”, maniaco del sesso, per i borghesi del nord, troppo crudo e forse comunista. Da leggere di nascosto. Di lui si sapeva anche che (forse) era zoppo e questo chissà perché gli conferiva un’ulteriore aura luciferina.
In ogni modo: nemmeno nella biancorossa collana Einaudi per la scuola media aveva trovato posto – banalmente perché Bompiani? C’erano il suicida Pavese e il tabagista Cassola (leggete Il taglio del bosco, ogni personaggio fuma in modo diverso), ma niente del claudicante erotomane comunista. Niente. Né una compilation di racconti, né Agostino, be’ ma quello per forza che no.
Seguii il consiglio di quel professore illuminato e scopersi che – come accade ai giovani scrittori ribelli che diventeranno vecchi indomiti e curiosi – l’adolescenza, il travagliato passaggio all’età adulta, è un tema cardine di Moravia. Ma nessuno si preoccupava che ignorassimo uno dei massimi esegeti di quel momento della vita in cui “hai più nausea”, direbbe un filosofo di passaggio.
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Inverno di un malato, lo rileggo, è appena stato riedito per Bompiani, insieme ai racconti 1927-1951, per i trent’anni dalla morte dell’autore. Premio Strega 1952.
Pubblicato nel 1930, un anno dopo Gli indifferenti, rimanda a una sofferta esperienza biografica di Moravia – la tubercolosi ossea che lo colpì da ragazzo, il soggiorno al sanatorio Codivilla di Cortina d’Ampezzo tra il ’23 e il ’24.
Inverno di un malato espone a sua volta i tormenti di Girolamo, 17 anni, ospedalizzato insieme al commesso viaggiatore Brambilla e pronto – sotto l’ala del narratore, aperto a una visione della realtà marxista e freudiana – a scoprire la classe e il sesso o viceversa. Sono due cose essenziali, da conoscere, se vuoi essere adulto.
Ma che impasse per Girolamo. Il panico e il vuoto lo assalgono di fronte al Brambilla risanato e in via di dimissione, a cui d’improvviso non deve provare più niente: il che rende inutili, poiché senza senso, i suoi maneggi sessuali con la piccola inglese Polly; l’aggravamento di quest’ultima, poi, gli rende impossibile pure proseguire sulla strada del dissennato piacere.
Ecco perché il professore – un medico cialtrone, peraltro – di cui è annunciata la visita a Girolamo non può che incarnare il timore di un giudizio senza speranza, forse l’espulsione stessa dal mondo civile… Povero Girolamo, protagonista di un racconto d’iniziazione inchiodato in un gioco ambivalente di “pietà e rifiuto” (Massimo Onofri).
Continuo a leggere il Moravia breve: non me lo ricordavo così asciutto e scarno in una scrittura asservita all’indagine, al bisogno di comprendere – anche se i racconti gli richiedono, rispetto ai romanzi, lampi e intuizioni “poetiche” nella creazione dei personaggi. Non è ancora apparso quel tono burbero-burocratico da brusco pontifex maximus che Moravia adottò nei cosiddetti “romanzi dell’intellettuale”, l’intellettuale protagonista che, per certo, ne sa assai di più dei soliti testimoni sempliciotti del neorealismo.
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Cinquant’anni in un secondo. Faccio un balzo in avanti. Al Moravia finale. Vado al suo “ultimo” libro – lo disse, ma ne seguirono altri – scritto in sette anni e in sette stesure, e uscito nel fatidico 1978, il tempo esatto del Riflusso. La vita interiore (Bompiani). Strombazzato e iperlanciato.
Allora Moravia aveva già firmato Io e lui – storia di un uomo che dialoga col proprio pene, ribattezzato Federicus Rex – e aveva sempre poca esposizione nelle biblioteche borghesi milanesi, in cui negli anni erano però apparsi La ciociara per il suo profumo neorealista, Il conformista – perché toccava il dramma dei fratelli Rosselli e per il film di Bertolucci – e, con più fatica, La noia, che era in realtà una noia speciale, l’alienazione da boom economico, e che rappresentò la ripartenza di Moravia dopo l’abbandono del “mito nazionalpopolare” (cfr. Vita di Moravia, Bompiani, 1990).
Bene. La vita interiore è un Moravia “at his best and worst”, The Late Great Moravia, esploso tra tutti i suoi temi, tra sesso e classi, impulsi alla trasgressione e gesta di una nuova “borghesia omicida e suicida per odio di se stessa”, in una lunga e quasi folle – a rileggerla ora – intervista alla ragazza Desideria (!), psicotica lucidissima, vittima di Voci, emula grottesca di Giovanna d’Arco, bulimica, sessuomane e votata alla devianza più radicale – e impermeabile al ridicolo: si pulisce il culo con Manzoni –, immersa in un osceno – questo sì – mondo capitalista che ne provoca le disavventure, psichiche e sociali o viceversa.
Dove si nota che la griglia dell’intervista – in uno scrittore che si è sempre servito generosamente del dialogo – da un lato agevola e appaga il bisogno di sapere, di andare al punto, del tardo Moravia – simile a un nonno impassibile e feroce che interroga una nipotina scellerata; dall’altro conferisce una forma rigida pur se irreale a una materia narrativa esorbitante pronta se no a disperdersi nel caos: i due personaggi in questo senso possono pure rimandare a topiche freudiane.
Riaprendo quelle pagine oggi trovo una particolare, quasi palpabile infelicità creativa, nel senso che è percepibile in Moravia un freddo furore, l’impazienza e l’impotenza, la scontentezza di sé – lamentata più volte – come scrittore. Di contro: il desiderio di lasciarci “il” Grande Romanzo dell’Italia Contemporanea. Non per caso l’autore lo ricollega proprio a Gli indifferenti dai quali è partito, trattando anche qui della “giustificazione morale e assoluta dell’azione” (cfr. Vita di Moravia).
Per tornare alle forme, neppure pare un caso che l’autobiografia, apparsa all’indomani della morte, sia una fluviale intervista, Vita di Moravia, firmata con Alain Elkann, intervista che si aggiunge a quella (piuttosto reticente) de Il bambino Alberto di Dacia Maraini (Rizzoli, 1986), la quale cerca di svelare i motivi profondi che fecero di Moravia il più grande scrittore del suo tempo o, per lo meno, di un tempo che non seppe e volle travalicare.
Nota a margine Per il Moravia ras delle lettere, uomo di potere, cui si dovrebbe per vendetta l’oscuramento della sua fama post mortem, si trova sulle bancarelle il vecchio pamphlet di Sergio Saviane Moravia desnudo (Sugarco). L’autobiografia, invece, dove a lungo Moravia contrasta l’accusa di aver avuto qualsiasi potere editoriale e mondano, è una formidabile raccolta di incontri e di giudizi letterari, spesso rilasciati con estrema sicurezza in poche e ruvide parole.
IL LIBRO Alberto Moravia, I racconti 1927-1951, Bompiani