Hilary Swank invecchia alla grande, bypassando la categoria milf che tanti lutti addusse alle star di Hollywood, e non si capisce (o si capisce benissimo) perché, dopo la stella sulla Walk of Fame, invece dell’avambraccio sia stata la sua carriera a prendere una parabola cadente.
Resuscitata in quanto madre di Getty jr in Trust, le affidano ora in una serie tv il ruolo che a spanne già portò sfiga alla Bullock: moglie e mamma comandante dell’ennesima fantascientifica missione internazionale in cerca di nuove location sul pianeta Marte (ma in che anno siamo?) quantomeno in ritardo pure sui piani caciaroni di Elon “Mani Bucate” Musk e sulla cronaca spicciola (è di queste ore la notizia di Venere balzato in testa nella classifica dei pianeti di prossima gentrificazione).
Il carattere non le manca, e la mascella volitiva è ancora quella che provocò più di un’erezione al già senile highlander Eastwood con la pistola carica, disposto a puntarci sopra un milione di dollari, tanto che di fronte al rischio del 50 per cento di trasformarsi in torcia umana a meno di cinquant’anni non le si forma nemmeno una ruga d’espressione quando gazzettiere da desk ticchettano su Casa Zuckerberg, terrorizzate, di rispetto sociale e sicurezza e si lasciano blindare in casa per un misero zero virgola qualcosa (ma poi escono tronfie con tanto di museruola stylish – e pensando pure d’essere più educate e premurose degli altri – quando la protezione è garantita solo al 30 per cento – avranno capito che allora andare fino a Nolo è più spericolato che puntare su Giove?).
Tutto pare procedere al meglio in attesa del decollo che prevede prima uno step da Base Luna già colonizzata per l’equipaggio composto come nelle barzellette di una volta da un russo, un indiano e una cinese ma aggiornato ai tempi non del Covid ma del Politically Correct: dentro allora anche il botanico negher, ebreo e forse comunista. Due anni di addestramento per scoprire dopo due minuti che lo spirito di squadra è rimasto sulla Terra, con ovvio, dopo un decennio di vilain sauditi e afghani, il solito russo a farla da cattivo (spalleggiato dalla ciaina): sdoganati entrambi alle botteghe della moda ma non ancora, evidentemente, al botteghino.
“Non fare il melodrammatico” avverte l’indiano ma ormai il danno è fatto e a poco serve ristabilire le gerarchie col supporto dello psicologo da Houston. Che non solo il comandante Emma Green appare inadeguato, non avendo a dispetto del nome nemmeno le basi di chimica, ma si scopre che alla NASA sono così fessi da imbarcare “per il futuro del pianeta” in un viaggio di tre anni una madre e mogliettina devota col marito tremebondo quando pure a Cinecittà sanno che per le missioni impossibili bisogna diffidare di chi tiene famiglia, la scusa dei pavidi per calare le braghe pure quando c’è solo da alzare la manina in riunione. Se è vero che s’ispira a un fatto realmente accaduto, come riportano copiaincollando tutti i media, citando l’autorevole Esquire (in realtà, Scott Kelly da vero astronauta era più preoccupato dalla mancanza dell’asse del cesso che dalla cognata a cui avevano imprevedibilmente sparato) ciò non va a merito dello script ma rende solo più pirla i vertici della NASA.
Parte così la telefonata strappalacrime interstellare, alla quale verrebbe voglia di aggiungere in sottofondo un Dalla di ritorno dal futuro a consigliare gli sceneggiatori: “Telefona, tra tre anni, io adesso non so cosa dirti”. Il tutto su Netflix.
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