Mi ricordo molto bene Giovanni Maimeri che va negli States in Treno di Panna (1981), e Fiodor Barna che rincorre e abbraccia in Uccellida gabbia e da voliera (1982) l’incantevole Malaidina.
Erano due eroi e una ragazza davvero “alla Andrea De Carlo”, come avrei subito imparato e ammirato: posseduti da una coolness totale, da un candore in apparenza ingenuo, da un assoluto menefreghismo per il luccichio farlocco della vita di società – Maimeri per esempio fa il cameriere per mantenersi se ricordo bene a Los Angeles con una nonchalance degna di Buster Keaton.
Erano eroi spaesati e tenerissimi, a volte, cui arride però un “successo di critica” seppure nella loro esistenza cartacea, per via di un’eleganza naturale che li ripara sempre dalla più volgare realtà. Mi dà ragione l’autorevole Enzo Siciliano – cadendomi dalla vecchia copia di Uccelli da gabbia un giallastro ritaglio del Corriere della Sera del 1982 – dove per lo scrittore milanese giunto al secondo romanzo parla di “grazia” e di “volontà di chiarezza” nella “vastità parcellizata del mondo” in cui ci muoviamo.
Dati questi prototipi di eroi, che negli anni sono stati replicati in forme diverse, e adattati più o meno all’esistente, mi stupisce un po’, per riflesso condizionato, trovare in libreria un De Carlo da commedia all’italiana contemporanea (il contrario di una “commediaccia”) con libero accesso al registro comico – manca un po’ di drammatico per fare il grottesco.
Ma è tutto abbastanza chiaro ne Il teatro dei sogni. Ci sono paesi governati da simil leghisti, qui detti unionisti, sindaci simil grillini, detti rivolgimentini, conduttrici tivù oltre il trash – esemplare su questo il capitolo 18 – e tanti scempi e vizi italiani, che si accentrano come per dispetto attorno a un giardino fatato dove regna sdegnoso il marchese archeologo Guiscardo Guidarini detto Gui.
Gui, dice la fama popolare, ha scoperto e dissotterato un antico teatro nel suo terreno assediato dalla speculazione, da immonde sale di slot e orribili ville costruite da geometri, e alla fin fine se ne starebbe pure contento lì per i fatti suoi un po’ misantropi e con i suoi adorati cavalli disadattati se tutti non avessero preso a scocciarlo.
Ecco: Gui incarna subito la mia zona di conforto nel romanzo, perché, tanti anni dopo e a un’altra età anagrafica, recupera la coolness dei Maimeri – che è poi quella grazia naturale, peculiare, di tutti gli eroi di De Carlo e di De Carlo stesso: l’avete mai visto sproloquiare di letteratura o azzuffarsi su qualche gazzetta? Va be’, ha fatto un reality tv, ma nessuno è perfetto…
Leggete questa descrizione: “Sembra che convivano in lui (Gui, ndr) insofferenza anarchica, arroganza aristocratica, infantilismo e distacco dalla realtà” (pag. 131). Ecco: il contrario del sindaco buzzurro ma verace, cui gli spin doctor, su input del capo carismatico di Rivolgimento – un ragazzo italosvizzero svelto nella comunicazione – cambiano connotati e outfit al capitolo 31.
Mentre leggo, pregusto il momento in cui il marchese cool – la paroletta appare ironicamente ma non per lui a pag. 289 – capitolerà (senza capitolare) per amore, perché questo succede a un certo punto agli eroi di De Carlo e lui è da sempre un finissimo scrittore d’amore, anzi dei sentimenti nel loro farsi, in questo è quasi un sociologo laureato.
Pescate dei romanzi a caso di De Carlo e sfogliateli: Tecniche di seduzione (1991), Nel momento (1999), LeieLui (2010)… Intanto, noi immaginiamo che Gui, poiché siamo in una commedia – di cui forse un prototipo nella produzione di De Carlo è Giro di vento, 2004 -, finirà tra le braccia della meno probabile tra le donne presenti. E ci chiediamo: come reagirà Agnese, l’amica e collaboratrice che vive con lui e gli sta accanto in castità, in funzione sororale però chissamai?
Ma adesso smetto di scrivere questa nota e continuo a leggere, divertendomi, e senza sottovalutare la componente politica, o di satira dei costumi del romanzo, che riporta all’ambizioso Villa Metaphora (2012) e che prende gran parte del romanzo.
Il capitolo 33, per esempio, è un pezzo di bravura in forma di strepitoso ritratto di leader populista in azione – il Coach, avido e ignorante, incapace di concentrazione ma abilissimo a elaborare potenzialmente catastrofiche strategie di infimo respiro – e prelude al gran finale. Ovvero una travolgente ed esilarante scena di massa, d’impianto quasi russo – in senso cinematografico e non di Putin, cacciatore col Coach di orsi bianchi – dove convergono come in battaglia tutte le forze contrastanti: è la decisiva conferenza stampa nel giardino di Gui, in cui l’archeologo dovrebbe alienare a suon di milioni o condividere col mondo il suo teatro dei sogni…
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L’anatra in volo della copertina, disegnata come d’abitudine dall’autore, si trova nel capitolo 19, e assiste a un abbraccio spontaneo ma compromettente e al tiro alla fionda con un curioso drone.
IL LIBRO Andrea De Carlo, Il teatro dei sogni (La Nave di Teseo)