Ema di Pablo Larraín è un film presentato alla Mostra del Cinema di Venezia dell’anno scorso ed è uscito in Italia il 2 settembre, in due sale cinematografiche due.
L’ambientazione cilena, quella di Valparaíso, mette in scena un’architettura urbana che è lo specchio della cultura di strada. Lo spirito vitale della città si mostra agli spettatori dagli occhi di chi la vive: vie trafficate, piazze variopinte, parcheggi abitati da ragazzini, scorci d’oceano e luoghi di vita contemporanei. Il tutto fatto di quel grigio impastato, il cemento, ormai usato dal tempo: edifici uguali, vuoti o poco abitati, tetti provvisori per ballare reggaeton, ritrovi nascosti per serate e feste private. Il Cile di Larraín è sempre lo stesso, quello vivo e vero che sente il peso della storia non così lontana (Tony Manero, Santiago 73 Post Mortem, No), e anche questa volta la sua eroina è una donna, di certo molto diversa dalla Jackie statunitense di qualche anno prima.
Pablo Larraín, musicato da Nicolas Jaar, racconta una storia di emancipazione femminile. Precedentemente, già aveva testato la passione per la musica, in particolare con Tony Manero, dove il protagonista Raúl Peralta voleva sfuggire al Cile di Pinochet grazie alla musica disco.
Questa volta, non è più la storia che pesa, ma i colori intensi del carattere infuocato di una ragazza che balla. Uscendo dal cinema dopo il film, le emozioni intricate e gli interrogativi restano tutti lì, non risolti. Il contrario sarebbe impossibile e il film perderebbe in qualità.
Pablo Larraín compone un dramma in musica spezzettato, che diventa quasi un musical drammatico, in cui la voglia di vivere è espressa dalla danza, dai movimenti del corpo in musica, in una Valparaíso che vive di tutte le sue luci, dalla notte all’alba, dalla mattina al tramonto.
Che pensare oggi della famiglia tradizionale e tradizionalista, del ruolo di madre e di quello di padre, delle frontiere etiche dell’amore coniugale?
Ema è la storia di una ragazza, ballerina di reggaeton col fuoco della vita dentro, mamma di un bimbo adottato con Gastón, suo compagno e coreografo, che non può avere figli.
L’acqua e il fuoco coesistono nel film come i due poli di una dialettica esistenziale che non si esaurisce mai. Ema è il fuoco, e nel film si innamora di un pompiere dopo un incendio, o forse è solo una bella metafora…
L’acqua invece spegne le fiamme lanciate da un lanciafiamme che spara vita infuocata, e alla fine di ogni giornata quel blu immenso fa riposare l’animo, su un poggiolo con vista sull’oceano.
Non pensate di poter fermare una donna che vuole qualcosa, sembra dire Ema coi suoi occhi giovani e vivi, sofferenti ma appassionati, quelli di una ragazza-donna che fa la ballerina, che vuole fare la mamma di Polo, ristretta in una società contemporanea che di moderno ha solo i mobili d’interni di un ufficio legale, quello nel quale a un certo punto inizierà a ballare la sua danza della vita, e alla fine avrà ciò che voleva.
- Francesca di Florio è architetto e vive a Parigi. Porta avanti un progetto di ricerca dottorale sulla poetica della città industriale e il cinema europeo degli anni ’60 e ’70.