Stefano Massini entra in scena e dice: «Il racconto di una storia non è mai un atto a senso unico. E’ un qualcosa che si trasmette da chi racconta a chi ascolta e quella storia la riceve e la fa propria. Così una storia non è mai quella che vuole l’autore, non porta necessariamente là dove l’autore decide. La storia ha una vita propria, prende per mano autore e pubblico e li conduce dove vogliono loro».
È quello che succederà anche a noi, che siamo ad ascoltarlo al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano, dove Massini ha in questi giorni in cartellone il suo Storie.
Una forma teatrale strana, come sottolinea lui stesso, indefinibile, che sfugge a una classificazione, «perché non è uno spettacolo tradizionale, non è un monologo, non è una lezione, non è una conferenza. È qualcos’altro, ma anche una sintesi di tutte le altre forme».
Autore di Storie, Massini spiega così il processo creativo. «Che cosa c’è prima di un testo? Semplicemente: la scintilla di una storia, l’innamoramento per la sua forza, per gli echi che contiene, e dunque la volontà di raccontarla. Solo che le storie si nascondono ovunque. Soprattutto oggi, nella proliferazione dei mezzi di comunicazione, in cui la bulimia del narrare a tutti i costi si traduce in valanghe di sequenze inutili. Scopri allora che all’alba del Terzo Millennio uno scrittore è innanzitutto questo: un rabdomante, un cercatore d’oro del Klondike alla ricerca di vene sepolte, nascoste, sedimentate».
Massini consegna agli spettatori storie come quelle dei gatti verdi che corrono in un prato o del principe che fa di tutto per sposare una principessa dai gusti rozzi e che proprio per questo alla fine manda a quel paese. Lo fa traendo spunto da autori come Kafka o i grandi russi e ancora più bello sarebbe se nel suo narrare raccontasse anche quel che sta accadendo ora, in un mondo devastato dalla pandemia.
Stefano Massini è accompagnato dalle musiche di Paolo Jannacci (a sinistra nella foto in alto) al pianoforte e Daniele Moretto alla tromba e flicorno. «Un elemento di imprevedibilità che ci consente di “muovere” lo spettacolo, di spostare i segmenti narrativi, di modificare la scaletta, di preservarne la natura ibrida, indefinibile e “in fuga”».
Credit foto in alto di apertura: Masiar Pasquali