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Allonsanfàn
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The last word e l’eterno problema dei serial: l’ultima puntata

The last word è una mini serie in onda su Netflix. Tratta di morte, funerali ed eloquenza. Ci sono capitato per caso spinto dalla disperazione: il nostro range (della mia compagna e mio) di gradimento è più esile di una speranza, come dicevano di Spike, il cugino di Snoopy.

Chi fosse interessato ad ambienti genericamente berlinesi (a me piacciono moltissimo) e a una recitazione che mischia il livello basso con quello profondo, non resterà deluso. Tuttavia, nonostante il clima depressivo indotto dall’ampiamente prevedibile “seconda ondata”, questo post non tratta della trama, plot e stili di recitazione di The last word. Il tema delle mie temo inutili riflessioni riguarda uno dei più grandi misteri dell’umanità: lo svacco dell’ultima puntata. È accaduto con il Trono di spade e prim’ancora (molto, molto prima) con Happy Days. E accadrà ancora e ancora. È fisiologico come l’abbassamento delle vette alpine, il rincretinimento dell’elettore medio, il tasso di riduzione della quantità di Campari negli spritz.

Fate conto che le puntate di The last word sono 6. Le prime 5 sono un ragionato e ragionevole equilibrio tra ironia e assurdità di vivi che variamente si disperano e di morti che (a volte) compaiono ai vivi. Una scrittura brillante sorretta da una recitazione più che adeguata fa sì che la formula narrativa galleggi come una bottiglia di plastica nell’oceano. (A proposito, avete notato che della plastica pare non fotta più una mazza a nessuno?). Poi il fragile equilibrio tra trama e ordito si spezza: nell’ultima puntata i personaggi si muovono come nel più sciocco vaudeville di terz’ordine. I personaggi fanno i pagliacci, compiono un sacco di cazzate inverosimili e la storia non ha più alcun senso. Fine.

La domanda delle cento pistole alla quale nessuno sa dare risposta è sempre la stessa: perché? Ipotesi: a) il produttore ha litigato con lo sceneggiatore; b) lo sceneggiatore ha litigato con la moglie (marito); c) il regista è fuggito con un ballerino (ballerina) rumeno; d) il produttore, lo sceneggiato e il regista hanno assunto una dose eccessiva di funghi messicani; e) i servizi segreti russi hanno avvelenato l’intera produzione per fare un dispetto alla signora Merkel; f) Trump in persona ha dato ordine a Pompeo di sabotare una serie dell’odiata Ue… Il fenomeno è chiamato “salto dello squalo” (cfr. Wikipedia). Quale sia la ragione che lo determina, esaurimento creativo o del budget, l’oro di un’eccellente (o ragionevolmente buona) narrazione si trasforma in guano.

Purtroppo il salto dello squalo non riguarda solo le serie televisive, la forma d’arte cinematografica della nostra epoca. A partire dai tardi anni Sessanta il degrado creativo mi pare abbia investito ogni forma d’arte pop. Dalla musica rock al cinema d’intrattenimento, dall’arte visiva alla pornografia, dalla comicità ai talk-show televisivi, ne sono saltati di squali. L’area dove il disastro fa sembrare Cernobyl una succursale di Gardaland è la discussione e financo la divulgazione filosofica. Nel bene e nel male (molto più il secondo del primo) la mia generazione aveva a che fare con Derrida e Foucault, Baudrillard e Deleuze, Lyotard e Vattimo, mentre ora il convento passa le zuppette degli Žižek e dei Recalcati. Ma c’è da sorbettare in silenzio senza fare il risucchio: i nostri son tempi in cui persino un generico di Lodi come il Fuffaro, creatura che al massimo potrebbe ambire alle copertine di Grand Hotel, viene scambiato per un maître à penser.

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