Emilia Marasco è una donna che ha un sguardo ampio sul mondo. Docente di Storia dell’arte e di Scrittura creativa all’Accademia ligustica di Belle Arti di Genova che ha diretto per quasi dieci anni, ha fondato con Claudia Priano la scuola di scrittura creativa Officina Letteraria di cui è tuttora responsabile. Mamma di tre figli, due adottati in Etiopia, ha fatto un’esperienza di ospitalità tramite Refugees Welcome, accogliendo per un anno un ragazzo del Mali. Così non stupisce che il suo ultimo romanzo, Cinghiali in città (Il Canneto editore), abbia dentro molto della vita di tanti. Anche in questi tempi di pandemia.
Cinghiali in città arriva dopo altre pubblicazioni, tra tutte Volevamo essere Jo e Famiglia: femminile plurale editi da Mondadori, La distanza necessaria e La memoria impossibile da Il Canneto editore.
Racconta la storia di Vera e della paura che comincia a crescerle dentro a un certo punto dell’esistenza. Una paura multiforme: delle malattie, dei contagi, della morte, della violenza. Finché il fratello le chiede di ospitare un bambino in arrivo dal Kenya per essere curato in Italia. La convivenza con Abel sarà difficile ma porterà Vera a confrontarsi con le ragioni profonde delle paure che le impediscono di vivere.
Smarrimento, ansia, incertezze, speranze. Nelle pagine di Cinghiali in città ritroviamo i nostri pensieri e le nostre paure. La protagonista Vera prova quello che ciascuno di noi almeno in parte sente dentro sé, a partire dalla preoccupazione di dover fare i conti con un lavoro sempre più precario e sempre meno garantito.
«E’ un romanzo che ho scritto e poi ripreso dopo qualche tempo. Questo mi ha permesso di arricchirlo nei contenuti, di ampliarli. L’ho iniziato con la volontà di raccontare “la generazione della crisi” partendo dalle considerazioni di un amico di uno dei miei figli che argomentava così la decisione di non andare più a votare: “Noi siano quelli che possono solo arrangiarsi, siamo una generazione cancellata”. Parole che mi hanno fatto pensare. Abbiamo dato molto ai nostri figli rispetto a quello che abbiamo ricevuto dai nostri genitori, eppure non è servito a migliorare il loro posto nel mondo. Per noi che apparteniamo alle generazioni precedenti a quella di Vera è un dolore assistere a un qualcosa che si è inceppato. Al disordine nella vita di chi spera in un lavoro ma ne fa un altro e poi corre per prenderne un altro ancora e poi lo perde. E vive privandosi di quello che non può più pagare e rinunciando a quello che non potrà mai avere. E’ un disordine di vita ma lo è anche interiore. Andare a convivere oppure no, fare figli oppure no, tutto è contaminato dall’incertezza».
Nelle paure di Vera, nella sua ansia, nel suo chiudersi sempre più in casa, ma anche nella scelta del telelavoro e della spesa online c’è moltissimo di quello che accade oggi a causa della pandemia. E’ un’incredibile coincidenza?
«Sì è un’incredibile coincidenza. In momenti difficili della mia vita a me è successo di avere questa fantasia. Poi non mi sono isolata perché ero al centro di molteplici relazioni, avevo responsabilità, non c’erano le condizioni. Ma è una scelta che non avrei escluso. Che avrei fatto magari per un periodo di tempo, proprio come Vera che si chiude in una fortezza che ha però moltissime fessure. Lei non si abbrutisce, sistema la casa e la sua postazione di lavoro, ha rapporti con la vicina, ha i gatti, non si fa completamente del male. Vera – che si è persa fin da quando era bambina – è come intorpidita e ha bisogno di riavvicinarsi a se stessa. Fermarsi, “mettere fuori tutto e tutti” a volte può essere l’unica possibilità per ritrovarsi davvero».
E poi arriva Abel dal Kenya. E io ho pensato a te che, dopo il primo figlio, hai adottato gli altri due in Etiopia, e più recentemente hai accolto per un anno un ragazzo del Mali.
«Accettare di essere accogliente non ti rende accogliente in uno schiocco di dita, bisogna pian piano lavorarci. Perché puoi essere accogliente con il cuore, ma devi affrontare tanti momenti di frizione in cui davvero non sai più qual è il tuo spicchio di mondo, visto che altri se lo mangiano. Questa è anche la storia di Vera. Nel romanzo è centrale il tema dello spazio, il cui valore abbiamo spesso dato per scontato e che proprio il lockdown ci ha insegnato a recuperare. Lo spazio è qualcosa di molto identitario. Vera, che si è sempre sentita esclusa da tutto, addomestica il proprio spazio sulla propria immagine. E l’accoglienza del bambino, che lei accetta per senso del dovere nei confronti del fratello, la vive all’inizio come una forzatura».
Una forzatura che poco per volta si stempera…
«Vera ha un passato di bambina ferita e specchiarsi in un bambino le fa bene. Abel ha il ruolo di traghettatore: la riporta fuori. In un fuori meno insidioso, in un fuori che si rivela diverso da quello che aveva tanto temuto».
E i cinghiali del titolo?
«Qui a Genova, in diversi quartieri, ce ne sono molti che si aggirano all’alba e di notte. Scendono dalla collina alla ricerca di cibo. Io esco con i cani e ho un terrore folle forse perché in 20 anni non li ho mai incontrati e quindi ne ho sempre più paura. Nella storia di Vera li ho scelti come sintesi e simbolo di tutte le paure».
Il libro: Emilia Marasco, Cinghiali in città (Il Canneto editore)