Per lungo tempo Wlodek Goldkorn si è occupato dei libri degli altri. Per nostra fortuna ora si occupa prevalentemente dei suoi.
Non è facile definire i suoi lavori. Tecnicamente sono saggi resi visionari e poetici dalla tensione morale che li attraversa: Goldkorn scrive per comprendere, per dare una spiegazione a sé stesso prim’ancora che al lettore. Purtroppo all’oggetto della sua riflessione è impossibile dare risposta: perché il Paese più evoluto d’Europa ha generato la Shoah? Perché l’ebreo è il bersaglio preferito di chi ha bisogno di odiare? Perché la modernità è il detonatore dell’antisemitismo? Come possiamo tutelare la memoria di ciò che è stato affinché non si ripeta mai più?
Le tesi che sostiene, le parole che sceglie – miracolo di una lingua appresa in età adulta – sono il risultato di chi di fronte all’assurdità del male assoluto non rinuncia al dovere della distinzione: della verità storica e, altrettanto importante, delle responsabilità individuali.
Dare una spiegazione, non rinunciare a comprendere, è oggi la cosa più importante. Viviamo in un’epoca in cui i paradossi svolazzano come coriandoli a carnevale. Così le tesi geniali di Foucault sul rapporto tra verità e potere, verità e narrazione, sono divenute spranghe in mano ai negazionisti e ai mentecatti dell’uno-vale-uno; così il “politicamente corretto”, vademecum culturale affinché volgarità, prevaricazione e violenza verbale fossero banditi da ogni confronto civile, è divenuto il manganello di chi vuole impedire il manifestarsi di libere opinioni; così il relativismo – da approccio laico per storicizzare fatti, convenzioni e costumi – diviene il grimaldello per giustificare le peggiori schifezze al grido di “è la loro cultura”.
Questo è il compito che si è dato Wlodek Goldkorn, divenire a una sintesi che non sia compressione della storia a sottiletta Kraft. Il tratto che accomuna i suoi ultimi tre lavori – Il bambino nella neve, L’asino di Messia e La scelta di Abramo, ripubblicato in nuova versione – è il tentativo di proporre una interpretazione di fatti e delle idee che precedono e seguono i fatti, limpida quanto rigorosa. Limpida quanto coraggiosa.
Citando l’ultimo Levi de I sommersi e i salvati Goldkorn non ha paura di affrontare il rischio dell’astrazione-semplificazione, inevitabile “quando le parole non aderiscono pienamente alla realtà”. Ma come si può “far aderire alla realtà” Auschwitz? Come è possibile rendere percepibile l’orrore? Come dare razionalità e senso alla Shoah? Il testimone, continua Goldkorn, non dispone che del linguaggio, altro non può fare.
Nel nostro tempo, epoca in cui la confusione è moltiplicata dall’opera di abili quanto perversi mestatori, c’è anche chi – in buona o cattiva fede non importa – pratica lo sport “dell’anche loro”. Non solo i sei milioni di ebrei ammazzati nei campi. Anche loro, i tedeschi, sono vittime. Anche loro, i polacchi, sono vittime. Anche tutti i figli di dio, verrebbe da dire, sono vittime. Vittime di dio, del caso, della necessità. Ma Abramo, questo è il monito di Goldkorn, si rifiuta di obbedire all’ordine del suo dio. Il dio dell’Antico Testamento, mica quello bonaccione del Nuovo. Sceglie di dialogare con questo dio affinché cambi idea e così non sia (Abramo) costretto a sacrificare il figlio Isacco. Un’interpretazione quella di Goldkorn (finalmente) laica, in cui l’angelo che ferma la mano omicida sarebbe in realtà la coscienza di Abramo.
Perché leggere (e rileggere) Goldkorn? Perché – alla faccia dell’altro corpus di pensiero del Novecento sfregiato dal populismo volgare e accattone, quello di Nietzsche intendo – i fatti esistono, eccome se esistono. E chi dice che esistono solo interpretazioni, nel migliore dei casi è un dandy che s’atteggia, nel peggiore è un fascista di quelli pericolosi. Perché prima si interpreta allegramente, poi si giustifica e si nega, e infine si bruciano i libri. Il resto viene da sé senza troppi problemi.
Perché leggere (e rileggere) Goldkorn? Perché la sua è l’opera di un pensatore a ciglio asciutto che scrive come un poeta. La scrittura di chi non ha paura di esporsi, prendere posizione, sostenere una tesi anche se sgradevole a più: sollevare la pietra sul greto del fiume anche a costo di scoprire che sotto c’è il rospo, la biscia, l’insetto schifoso. Goldkorn sceglie di “semplificare la realtà” senza banalizzarla e senza imbottirla di fronzoli come un tacchino del Ringraziamento quando invita a ragionare su fatti, relazioni di causa effetto, responsabilità politiche e responsabilità individuali.
La semplificazione al servizio della verità (per quanto tempo ancora avremo il timore di apparire ridicoli e inattuali dichiarando che una verità esiste, che la verità fattuale va ricercata, testimoniata, divulgata e difesa a ogni costo, che senza ricerca della verità nulla ha più senso né significato?) è ciò che rende Wlodek Goldkorn un maestro. E solo dio sa quanto abbiamo bisogno di maestri in questo nostro tempo di confusione e di ignoranza.
Nell’immagine in alto, Caravaggio, Il sacrificio di Isacco