Un romanzo inedito di Silvio D’Arzo, Gec dell’avventura, è uscito a doppia firma per Einaudi, poiché è stato completato da Eraldo Affinati. La storia di un ragazzino, ambientata nell’Inghilterra del Settecento: la madre è la levatrice del paese, il padre è morto, era un sellaio ma Gec crede che fosse un corazziere del re caduto in battaglia. Quando viene a sapere la verità scappa da casa e finisce su una nave di pirati… Mentre lo leggiamo, ripubblichiamo qui una lettura del più famoso (e perfetto) racconto di D’Arzo, Casa d’altri (Einaudi e, in versione arricchita di scritti, Bompiani).
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Navigava nei nostri scaffali, compariva nelle borse di cuoio dove mettevamo i libri dell’università, uno scarno volumetto Einaudi, Casa d’altri di Silvio D’Arzo, di cui sapevamo poco: l’autore era morto giovane e il racconto, uscito postumo per la prima volta nel 1953, si chiamava, in una delle precedenti redazioni, Io prete e la vecchia Zelinda. “Un’assurda vecchia: un assurdo prete: tutta un’assurda storia da un soldo”, questo l’abstract con iper understatement che si legge nel finale.
Era, si direbbe oggi, un racconto cult. Ed era tristissimo, il più triste del mondo, non fosse stato troppo eccentrico e aristocratico – sia il testo sia lo scrittore -, e di un’inconsueta fattura angloamericana, rivelata anche dallo stevensoniano All’insegna del Buon Corsiero, l’altro titolo conosciuto di D’Arzo.
Comunque, Casa d’altri era il capolavoro, comprendendo pure i tanti libri che non riuscì a scrivere, del provinciale e appartato Ezio Comparoni, vero nome dell’autore (Reggio Emilia, 1920-1953): nel centenario della nascita esce di nuovo nei tascabili Bompiani, a cura di Roberto Carnero, unito ad altri dei pochi testi che lo scrittore ha lasciato.
Tutto in cinquanta pagine Casa d’altri è il racconto di un vuoto che spinge la prosa “grigia e atona” – Manganelli dixit – all’opposto di una letteratura di accadimenti, di storie, di scene madri, intanto che allontana e isola l’autore dall’enfasi sociale di fine guerra e dall’impegno della ricostruzione anche letteraria.
Diamo ragione a Gianni Celati quando nota come “quello stile laconico… – riferendosi alle short stories di Ring Lardner, O. Henry ed Ernest Hemingway – in Casa d’altri prenda un aspetto per niente fattuale, per niente matter-of-fact, e faccia invece pensare a una prosa penitenziale – come riscatto della vergogna per tutte le parole del mondo”.
Da ciò forse deriva il giudizio negativo di Pavese, che rifiutò Casa d’altri in quanto era “…un’esile novella, di gracile respiro, di vitalità molto tenue…”, ma pure la lode di Montale che scrive di “…un racconto perfetto”.
Comparoni-D’Arzo, solitario, taciturno e segreto, è simile al prigioniero di guerra che vede scorrere un tempo vuoto e puro mentre guarda le imponenti montagne all’orizzonte (vedi Prefazione a Nostro lunedì, che compare nell’edizione Einaudi 1981-2007).
Da tale attesa, nasce Casa d’altri: quasi con circospezione, a una luce lunare, Comparoni-D’Arzo cerca uno status per l’eccezione alla più radicata convenzione che governa la vita degli umani – è sempre meglio vivere che morire; e rende indimenticabile l’incontro sui monti di un paesino appenninico tra il “prete da sagre”, un tempo soprannominato Doctor Ironicus, e la risoluta contadina Zelinda.
Due testi, le stesse parole La prima pagina del breve racconto Alla giornata (sempre in Einaudi 1981-2007), aperta dall’abbaiare del cane che mette in guardia un mesto consesso, differisce materialmente di poche parole dall’incipit di Casa d’altri.
Uguale il potente richiamo visivo a Rembrandt (La lezione di anatomia), differenti il personaggio che parla – un soldato in fuga invece di un vecchio prete – e il motivo funebre su cui le medesime parole accendono nel buio una lama di luce.
Alla giornata è una storia di guerra e quattro uomini si lasciano alle spalle, con la decenza consentita loro dalla fretta, il cadavere di un quinto. In Casa d’altri, c’è il prete che, nel minuscolo paese dove opera, prima di ritirarsi gestisce il decesso di un parrocchiano.
D’Arzo ha compiuto il gioco di destrezza di levare la tovaglia senza rovesciare le vivande sul tavolo. A parità di tensione, in Casa d’altri, toglie l’azione, il contesto storico drammatico della guerra, l’elemento potenzialmente romanzesco. Conquista appieno lo status “laconico”, jamesiano, renitente all’esposizione di fatti, della sua ispirazione.
Il comun denominatore che lega le righe dei due testi è espresso nella Prefazione a Nostro lunedì – “Il mondo non è casa tua; e a te sembra di starci a dozzina” – e in Casa d’altri trova piena realizzazione.