Henri Bendel e sua moglie Blanche Lehman – sì, proprio una di quei Lehman – sono arrivati a New York da Morgan City, in Louisiana, nel 1895 e hanno aperto il loro primo negozio sulla Nona Strada nel Greenwich Village. Blanche è morta di parto, insieme al bambino, pochi mesi dopo, e da quel momento Henri si è dedicato esclusivamente alla sua attività.
Realizza cappelli da donna, poi passa ai vestiti. E qualche anno dopo ai profumi: sarà il primo negozio della città ad avere un’essenza con il proprio nome. Essendo nato e cresciuto in Louisiana Henri parla correntemente in francese e comincia a importare tessuti, abiti e accessori da Parigi.
Nel 1907 inizia a marchiare le scatole in cui sono impacchettati i suoi prodotti con strisce bianche e marroni, e quelle scatole diventano ben presto un simbolo di eleganza. Nel 1913 fa costruire, su un progetto dell’architetto Henry Otis Chapman, un palazzo di otto piani al numero 10 della 57esima Strada Ovest, adornato con una serie di lastre di vetro commissionate artista francese René Lalique. Altre case di moda decidono di aprire la loro sede in quella strada, che diventa ben presto la Rue de la Paix di New York. E in quel negozio Henri è il primo in America che vende gli abiti e i profumi di Coco Chanel.
Aprono altri negozi Bendel, gli affari vanno bene e nel 1923 Henri, a cinquantacinque anni, decide di donare ai suoi dipendenti il quarantacinque per cento del capitale dell’azienda, per un valore contabile all’epoca di 1,8 milioni di dollari. Certo la crisi del ’29 colpisce anche la Bendel e le sarte e le modiste dovranno minacciare uno sciopero per far ritirare gli annunciati licenziamenti. Il vecchio Henri pensa di ritirarsi in una grande tenuta che ha comprato lungo il fiume Vermillion in Louisiana, ma rimane a New York, che ormai è la sua città, dove morirà il 22 marzo 1936, lasciando il suo compagno di vita per oltre trent’anni, Abraham Beekman Bastedo, a dirigere l’azienda.
Negli anni Trenta, se tua moglie dice che ha bisogno di un cappello, magari per andare a vedere il nuovo spettacolo scritto da Cole Porter che sta per debuttare all’Alvin Theatre, puoi star sicuro che tornerà a casa con una di quelle scatole a strisce bianche e marroni.
Il 2 agosto 1923 muore a San Francisco il presidente degli Stati Uniti Warren G. Harding, di ritorno da un viaggio in Alaska. Il giorno successivo il vicepresidente Calvin Coolidge, un avvocato nato in Vermont e che ha svolto tutta la sua carriera politica in Massachusettes, diventa inaspettatamente il trentesimo presidente. A Washington è conosciuto con il nomignolo Silent Cal, perché è un uomo di poche parole. Al tempo della sua vicepresidenza gira una barzelletta che ha una certa fortuna.
Durante una cena ufficiale una vivace signora dell’alta società si siede accanto a lui e cerca inutilmente di coinvolgerlo in una conversazione. A un certo punto gli dice: “Ho scommesso che stasera le avrei tirato fuori più di due parole”. Coolidge la guarda e con un mezzo sorriso le risponde: “You lost”, ha perso. Eppure il presidente Coolidge, che sarà eletto per un secondo mandato nel 1924, è uno che parla, anzi è il primo presidente che usa regolarmente la radio per comunicare con i suoi cittadini. Il 6 dicembre 1923 un suo discorso viene trasmesso alla radio ed è il primo discorso radiofonico presidenziale.
Quando si insedia per la seconda volta, la cerimonia è la prima trasmessa alla radio. Coolidge si rende conto quanto sia importante questo nuovo strumento di comunicazione e nel 1927 firma una legge per istituire una Commissione federale sulla radio. E Silent Cal è anche il primo presidente ad apparire in un film sonoro, registrato nel giardino della Casa Bianca da Theodore W. Case. Però Coolidge dice anche che “le parole di un presidente hanno un peso enorme e non dovrebbero essere usate indiscriminatamente”. Una lezione che i successivi inquilini del 1600 di Pennsylvania Avenue hanno con tutta evidenza dimenticato.
Paradossalmente il silenzioso e serio Calvin Coolidge – che morirà il 5 gennaio 1933 a Northampton – è il presidente dell’età del jazz. E forse per questo sarà ricordato con tanto rimpianto negli anni successivi. Coolidge rifiuta di essere il candidato del partito repubblicano alle elezioni del 1928, perché non ha intenzione di passare dieci anni alla Casa Bianca e così viene eletto Herbert Hoover, il suo segretario al commercio. Coolidge non ha molta stima del suo successore: “per sei anni quell’uomo mi ha dato consigli non richiesti, tutti pessimi”.
Hoover sarà travolto dal crollo di Wall Street e quattro anni dopo perderà le elezioni a favore di Franklin Delano Roosevelt, che ribalterà completamente le politiche economiche impostata da Coolidge, che aveva ridotto le tasse, ma soprattutto le spese federali. Coolidge è uno degli uomini politici che ha portato alla crisi del ’29 eppure nell’immaginario degli anni Trenta è ancora Silent Cal, il presidente silenzioso e onesto di un’età felice.
Per tutti gli anni Venti Greta Garbo non può parlare. I dirigenti della Metro assecondano ogni sua richiesta: non devono esserci visitatori sul set quando lei gira e mentre è seduta che aspetta di essere chiamata dal regista deve essere nascosta da un paravento. Il direttore della fotografia deve essere sempre Willam H. Daniels, perché Greta è convinta che solo lui la renda così bella. E poi chiede un cachet più alto a ogni film, ma i produttori accettano anche questo, perché tutti amano la Garbo, tutti sognano la Garbo. Ma parlare: no, non ci pensano proprio. I produttori hanno paura: è arrivata nel ’26 senza sapere una parola d’inglese e si sente ancora troppo il suo accento svedese. E se alla fine non funzionasse? No, è un rischio che non possono permettersi di correre, non possono perdere la gallina delle uova d’oro, solo perché lei vuole parlare. Però il pubblico ormai preferisce i film sonori – solo la Metro continua a fare quelli muti – prima o poi anche la Garbo dovrà parlare, ma cercano di resistere. Fino al 1929 fanno tutti i film che riescono, il più velocemente possibile. “Gimme a whisky, ginger ale on the side, and don’t be stingy, baby”.
È la sua prima battuta in Anna Christie, il film del 1930 – tratto da un dramma di O’Neill – in cui, come strillano i cartelloni pubblicitari Garbo talks. Anna è una giovane cresciuta in Europa: quel suo accento rende più credibile il personaggio. Ed è un successo. La Garbo adesso deve parlare, perché il pubblico ama anche la sua voce. È la grande seduttrice, un ruolo che Greta detesta, ma è quello che vuole il pubblico e la Metro non vuole certo rischiare con qualcosa di diverso. E Greta continua a chiedere un compenso più alto, ma non c’è problema, tutti vogliono essere sedotti dalla voce della Garbo. Che in Italia è quella, bellissima, di Tina Lattanzi. E anche nel nostro paese la Garbo è la Divina, tanto da diventare un verbo nella divertente canzone scritta da Alfredo Bracchi e Giovanni D’Anza, Cinemà, frenetica passion del 1934, una presa in giro di chi si atteggia come i divi del grande schermo: se la mamma cammina come la Marlène, la figlia passa tutto il giorno a gretagarbeggiar.
Il 21 novembre 1934 debutta a Broadway Anything Goes, il nuovo musical con le canzoni scritte da Cole Porter. Sono i suoi anni migliori: Cole non sbaglia una canzone. Poco dopo la metà del primo atto Reno e Billy, interpretati da Ethel Merman e William Gaxton, cantano una canzone in cui riaffermano la loro amicizia, dicendosi l’una all’altro: you’re the top. E con questo espediente narrativo Porter crea uno dei suoi capolavori, mettendo in fila una serie di cose che per lui – e naturalmente per il suo pubblico – sono indubbiamente il massimo; tra queste ci sono a Bendel bonnet, a Coolidge dollar e the Garbo’s salary.
E poi? Cosa è veramente top per Cole Porter? Lui ama Parigi, è in quella città che ha conosciuto Linda e in cui si sono sposati il 19 dicembre 1919, partendo per un lunghissimo viaggio di nozze in giro per l’Europa. I Porter adorano l’Italia e infatti sono top il Colosseo e la Torre di Pisa, ma anche l’Inferno di Dante. Cole per la precisione dice, sapendo di sbagliare, Inferno’s Dante, ma deve fare la rima con Durante. Alighieri e Jimmy: due con un certo naso. Non viene citata nella canzone una città che loro adorano, Venezia, dove hanno abitato per qualche tempo, avendo affittato Ca’ Rezzonico per quattromila dollari al mese (più o meno sessantamila dollari di oggi), ma amano anche città meno conosciute: a Ravenna, visitando il mausoleo di Galla Placidia, Cole ha l’idea di scrivere Night and Day. Amano anche l’Egitto, la luce viola di certe notti d’estate in Spagna e le steppe russe. Amano l’arte e visitano i grandi musei europei, la National Gallery e il Louvre, dove ammirano il sorriso di Mona Lisa e i quadri dei maestri olandesi dell’età dell’oro. E poi Shakespeare e Strauss. E il camembert.
Ma naturalmente Porter vuole raccontare anche cosa c’è di veramente grande in America. Il suo mondo è Broadway, la sua casa è il teatro e Cole parte proprio da lì, dal naso di Jimmy Durante e dai piedi che sembrano volare di Fred Astaire. Jimmy ha lavorato con Cole in The New Yorkerse Red, Hot and Bleu, mentre Fred è stato la stella di Gay Divorce. E Cole poi rende omaggio al suo amico e collega Irving Berlin, alle sue ballads: il teatro musicale è davvero uno dei vertici della cultura americana. Ma l’europeo Porter vuole ricordare anche i drammi di Eugene O’Neill, che nel 1936 riceverà il Nobel, e i quadri di James Abbott McNeill Whistler e Mickey Mouse.
Topolino è l’unico attore cinematografico citato da Porter, che però rende omaggio alla settima arte attraverso gli eleganti pantaloni, perfettamente stirati, degli uscieri del Roxy, la “cattedrale del cinema”, la grande sala da 5.920 posti che si trova al 153 West della 50esima Strada, tra la 6 e la 7 Avenue, appena fuori Times Square. Gli uscieri maschi in uniforme del Roxy devono seguire una formazione rigorosa, sono sottoposti a ispezioni quotidiane ed esercitazioni, sotto la supervisione di un ufficiale della marina in pensione: davvero il top. Porter ama l’America dell’età del jazz che celebra in questa canzone; l’America che – come avrete ormai capito – amo anch’io. E anche a me piace la Waldorf salad, l’insalata a base di mele, sedano e maionese – le noci saranno aggiunte una ventina d’anni dopo – inventata il 14 marzo 1896 da Oscar Tschirky, il maître del Waldorf-Astoria Hotel. Al tempo di Anything Goes l’albergo si trova da poco più di tre anni nella nuova sede al 301 Park Avenue tra la 49esima e la 50esima Strada, il grande palazzo di quarantasette piani, progettato dagli architetti Schultze e Weaver, un capolavoro dello stile art déco della città di New York.
Sono curiosi gli unici due riferimenti politici della canzone, anche perché Cole è un bon vivant, un aristocratico a cui stanno strette le regole “borghesi”, ma non si interessa affatto di politica. E infatti lui, citando il Mahatma Gandhi e Nancy Witcher Langhorne Astor non vuole dare un giudizio politico, ma raccontare la prima metà degli anni Trenta, scattare un’istantanea di quel mondo. E quel piccolo uomo, vestito di stracci, che tiene testa all’Impero britannico, e che l’opinione pubblica occidentale ha imparato a conoscere grazie al viaggio con cui ha visitato Londra e Roma, per Porter racconta un mondo che sta cambiando. Per l’elegantissimo Cole quell’uomo a cui si dice che il papa non abbia concesso un’udienza perché si è rifiutato di cambiarsi deve sembrare così incredibilmente jazz. Così come quella giovane americana che, dopo aver sposato un visconte inglese, è diventata la prima donna eletta a sedere alla Camera dei Comuni e a prendere effettivamente parte ai lavori parlamentari, visto che Constance Markiewicz, la prima donna a essere eletta nel parlamento inglese nelle file del Sinn Féin, non ha mai messo piede a Westminster.
Ma a Cole non interessa questo primato, Lady Astor è una bella donna, lei e sua sorella Irene sono state tra le modelle preferite dell’illustratore Charles Dana Gibson che ha creato la Gibson Girl, l’ideale di belle femminile dei primi decenni del Novecento. E poi Nancy è una donna indipendente, dalla battuta pronta, spesso mordace. A Cole importa poco che già negli anni Trenta la sua stella sta per tramontare, perché troppo legata a Neville Chamberlain e alla sua politica di appeasement verso la Germania nazista e anche a uno sfortunato viaggio in Unione Sovietica con il suo amico George Bernard Shaw, che Stalin ha usato come strumento di propaganda a favore del suo paese. A Porter interessa la donna libera, anche spregiudicata, una donna come Evangeline che ha raccontato nel suo musical Nymph Errant, che ha potuto debuttare solo a Londra nel 1933, perché troppo audace per l’America decisamente maschilista dell’età del jazz.
You’re the Top ha un successo che stupisce lo stesso Porter che considera quella canzone un trick di cui il pubblico si annoierà presto. Si sbagliava naturalmente: ci sono moltissime versioni di questa canzone. Tutti l’hanno voluta cantare: io amo molto quella di Ella Fitzgerald. Ella è sempre the top. Ne vengono fatte ben presto delle parodie. Sembra che anche Porter e Berlin si siano divertiti a scriverne qualcuna, ma non sappiamo se sia vero – come alcuni sostengono – che uno di loro due sia l’autore di una versione piuttosto volgare in cui viene citato come esempio di top il notevole “attributo” di Kong, che ovviamente non vediamo nel film della RKO.
Della versione originale – quella di cui ho parlato fino adesso – c’è una registrazione della Victor del ’34, in cui viene cantata dallo stesso Porter, accompagnandosi al pianoforte. Poi ce n’è una versione successiva, un po’ più lunga, in cui vengono citati i dipinti di Botticelli e le spalle di Mae West, i vestiti di Saks e le danze di Bali. Poi, man mano che passano gli anni alcuni riferimenti vengono aggiornati e così non viene più citata la Divina, ma si canta the Crosby’s salary.
Ma c’è anche un’altra versione, quasi contemporanea a quella di Porter, scritta per il debutto inglese del musical, avvenuto il 14 giugno 1935 al Palace Theatre. Il produttore Charles B. Cochran vuole adattare il testo per il pubblico londinese e affida questa revisione a Pelham Greville Wodehouse, che noi conosciamo per i romanzi dedicati all’impeccabile Jeeves, ma che è stato anche uno dei grandi autori dei musical del West End. Peraltro Wodehouse ha già lavorato su questo musical: è suo il primo libretto di quello che allora si chiamava Crazy Week. Ma quel libretto proprio non funzionava e così è stato completamente riscritto da Howard Lindsay e Russel Crouse.Wodehouse si mette subito al lavoro e naturalmente deve fare diverse modifiche a You’re the Top. Spariscono Henri Bendel e Calvin Coolidge. E anche Jimmy Durante. Ma rimangono la Garbo e Fred Astaire. Curiosamente nella versione andata in scena al West End viene citato anche il “nemico” Gandhi. Wodehouse è un paroliere troppo abile, avrebbe certamente trovato qualcosa per fare rima con Napoleon brandy: evidentemente anche per lui Gandhi è top, un simbolo degli anni Trenta.
La modifica che però rimane più impressa è un’altra: al posto dei drammi di O’Neill e della madre di Whistler, compaiono Mussolini e Mrs Sweeny, un’accoppiata stravagante, per quanto, a modo loro, entrambi siano rappresentativi di quegli anni.Il 21 febbraio 1933 il matrimonio tra Charles Francis Sweeny, l’ultimo rappresentante di una ricca famiglia cattolica della Pennsylvania, e Ethel Margaret Whigham, unica figlia di un milionario scozzese, è un vero evento: il traffico rimane bloccato per ore a Knightsbridge, perché tutti vogliono vedere la sposa e il suo bellissimo abito, disegnato per lei da Norman Hartnell. E anche Margaret è bellissima: tra Londra e New York, la città dove è cresciuta, tanti uomini si sono invaghiti di lei, compreso il principe George, il fratello minore di Edoardo VIII e Giorgio VI, e David Niven. Tornata definitivamente in Inghilterra si fidanza con il settimo conte di Warwick, salvo poi decidere di sposare quell’americano. Al tempo della canzone Mrs Sweeny è ancora un indiscusso simbolo di eleganza, la regina delle cronache mondane. Trent’anni dopo purtroppo non sarà più così: il nome di Margaret sarà al centro di un torbido scandalo che aizzerà contro di lei la curiosità morbosa dei giornali inglesi.
Benito Mussolini ci metterà molto meno tempo a perdere il favore del bel mondo della capitale inglese. George Bernard Shaw, il caro amico di Lady Astor, giudica Mussolini “un socialista che parla e pensa come fanno i governanti responsabili”, mentre Winston Churchill lo definisce “il più grande legislatore vivente” e ancora “uno degli uomini più meravigliosi del nostro tempo”: you’re the top. Peraltro anche a Gandhi piacciono le riforme portate avanti da Mussolini, specialmente riguardo la terra ai contadini. “Peccato – aggiunge il leader indiano – che queste riforme sono obbligatorie. Ma è lo stesso in tutte le istituzioni democratiche.” Comunque, pensano gli inglesi, per tenere a bada quegli italiani, serve il pugno di ferro. Wodehouse non si dimostra particolarmente lungimirante, almeno in politica: il 3 ottobre 1935, meno di quattro mesi dopo il debutto al West End di Anything Goes, l’Italia fascista dichiara guerra all’Etiopia. E Mussolini smette di essere il top.
Quando Anything Goes debutta all’Alvin Theatre, anche se è stata tolta da alcuni mesi, i cittadini di New York ricordano molto bene la grande insegna pubblicitaria appesa sulla 47esima Strada West a Times Square. Quell’insegna animata al neon che raffigura una ragazza che va avanti e indietro sull’altalena è rimasta lassù per tre anni, dal 1930 al ’33 e la conoscete anche voi perché appare in una scena famosissima di King Kong, uscito nella sale proprio nel 1933. E quando nel 2005 Peter Jackson ha fatto il remake con Naomi Watts ha voluto ancora quell’insegna. Si tratta della pubblicità della Pepsodent e Porter non può non inserire il nome del più popolare dentifricio d’America nella sua canzone: è la pubblicità baby! Il mondo di Cole Porter sta finendo, l’età del jazz sta finendo, travolta dalla guerra che in Europa sta covando sotto la cenere. E nulla sarà più come prima: rimarrà soltanto la canzone che ci racconta quegli anni. Cole, you’re the top!
- Luca Billi è noto sul web anche con il nome di Protagoras Abderites. Trovate un intero vocabolario delle sue storie, qui. Ha appena pubblicato il romanzo Una mucca alla finestra (Villaggio Maori Edizioni)