Fu un doppio spettacolo in un pomeriggio del 1972 al cinema Abanera di Milano – così chiamato per renderlo primo in ordine alfabetico nel tamburino delle pagine di spettacolo – che mi proiettò da ragazzino nel mondo del noir e del mito.
Primo film: I senza nome (Le cercle rouge), polar dell’immaginifico Jean-Pierre Melville. Mi parve interminabile – in senso positivo – e ipnotico, con attori di carisma, che mettevano soggezione: Montand, Delon, Volonté, che si muovevano in una quasi profetica lentezza…
Secondo film: cambiò tutto. Mi ritrovai immerso nel casino totale di Milano Calibro 9 di Fernando Di Leo con Gastone Moschin-Ugo Piazza, che a un certo punto prende l’autostrada dei Laghi, oppure la Milano-Torino, a due passi comunque proprio dal cinema Abanera.
Venni catturato nel vortice del racconto e il film mi rimase in mente per anni – non soltanto per la celebre visione dell’entraineuse Barbara Bouchet – unico tra i poliziotteschi e i noir all’italiana di quel periodo.
Non c’erano personaggi omerici come nel film di Melville e anzi Milano Calibro 9 mi frustrò perché mi fu impossibile identificarmi in qualcuno. Erano tutti sordidi e sudati come l’esagitato Mario Adorf. Ugo Piazza, poi, per come lo vedevo da ragazzino, era un grassone pelato. Capii più tardi quello che afferrai allora per via istintiva: era quel pacco di soldi che non si trova, oltre che il fil rouge del film, il vero personaggio principale insieme a una Milano isterica e cattiva.
Mi sono venuti in mente questi due poli del noir, quando ho visto ieri in streaming su un iPad – l’Abanera, tra parentesi, è diventato una parafarmacia – Calibro 9, spericolato sequel del film tratto dai racconti di Giorgio Scerbanenco e firmato da Toni D’Angelo.
È un sequel che più ardito non poteva essere vista la fama del B movie d’autore di Di Leo, ma ho diligentemente notato i punti di contatto con l’originale. Milano è molto presente – anche se quella dei nuovi torrioni. È sempre in ballo un grisbì trafugato, ma qui da 100 milioni di euro, girati digitalmente chissà dove (niente esplosioni in Stazione Centrale). Torna l’ambiguità dei Piazza: l’avvocato Fernando (!), figlio di Ugo (un buon Marco Bocci) è incolpato da tutti dell’ammanco miliardario, come accadeva a papà. Gira pure lui molto in automobile, non in 1100 ma in Porsche nera. La madre Barbara Bouchet compare in un cameo ma è anche proiettata in ologramma in un night per richiamare la celebre sequenza originale. La mafia di tutti i generi impazza. I poliziotti sono di nuova generazione e hanno a fianco i vecchi, che sono collusi come avveniva nel prototipo. Tutto il film vive di velocità, di spari e di violenza.
Manca però qualcosa al nuovo Calibro 9, eh già, manca l’aura, quella magia che fa apparire tutto unico e irripetibile, e che può elevare ai cieli dell’arte un piccolo grande film. Quell’aura percepita anche da me che vidi il film negli anni Settanta in un pomeriggio di doppio spettacolo all’Abanera e lo stesso forse capitò a un ragazzino in California, un certo Quentin Tarantino… Fuori concorso al #TFF38.