La scrittura è un mestiere peggio delle armi, non conosce soste né tregue. La scrittura come malattia e inutile cura della malattia: chi scrive per bisogno lo farà a qualunque prezzo. Proust si è letteralmente ammazzato vergando nel chiuso della sua camera da letto le minute striscioline di carta (“les paperoles”) che Céleste Albaret, la governante divenuta a sua volta scrittrice, incollava diligentemente sugli infiniti fogli di carta che diedero forma alla Recherche.
Forse qualcuno pensa che per Kafka, stimato impiegato delle assicurazioni boeme, e per Joyce, squattrinato bevitore in esilio, o per l’arci-borghese Mann la scrittura non fosse una forma di inemendabile necessità? E per restare in ambiente domestico, forse che Fenoglio, corrispondente commerciale di una casa vinicola, Pavese e Calvino avrebbero potuto dedicarsi a qualcos’altro che non fosse la scrittura? Chi scrive – a questi come a più modesti livelli – è preda di un crampo, di un obbligo, di una forma di nevrosi ossessiva. Scrivere, cancellare, riscrivere. Come accadeva a Flaubert, condannato alla ricerca della parola e della forma perfette.
Scrittori per necessità esistenziale e mai per caso? Inevitabile chiedersi quale sarebbe stata la sorte di Primo Levi senza il battesimo di Auschwitz, se Mario Rigoni Stern avrebbe incontrato il proprio destino se non avesse affrontato l’inverno russo. Con buona probabilità non avrebbero scritto neppure una pagina, onorando il lavoro che avevano scelto o gli era toccato in sorte, vivendo da persone determinate, miti e schive quali le ricordiamo.
Se è ad Auschwitz che Levi deve stigmate della scrittura è inutile ricordarne il prezzo; con Rigoni Stern la sorte è stata invece assai benigna. Lui stesso ha ricordato come il momento culminante della sua vita “non è stato quando ho vinto premi letterari, o ho scritto libri, ma quando la notte dal 15 al 16 sono partito dal Don con 70 alpini e ho camminato verso occidente per arrivare a casa, e sono riuscito a sganciarmi dal mio caposaldo senza perdere un uomo, e riuscire a partire dalla prima linea organizzando lo sganciamento, quello è stato il capolavoro della mia vita”. Rigoni Stern morirà esausto di vita nel proprio letto; privilegio negato a Levi.
Primo Levi e Rigoni Stern sono entrati nel mondo delle humanae litterae attraversando la porta della memoria. Hanno iniziato il mestiere della scrittura come memorialisti. C’era in loro l’urgenza di condividere, denunciare, levare un monito: attenti, ciò che è accaduto potrà accadere ancora. Molti altri in quegli stessi anni hanno tramandato le loro memorie di deportati, di vittime, di soldati nella sciagura.
Il più autorevole è Nuto Revelli. Partito volontario per il fronte russo, profondamente convinto della liceità morale della guerra fascista come la quasi totalità della sua generazione, dopo la tragedia degli alpini in Russia diventa uno straordinario combattente per la libertà e un importante protagonista della storia orale italiana. La sua è scrittura di valore storico, civile e politico, ma nulla ha a che fare con l’invenzione narrativa. La letteratura è per definizione altro.
Chi legge coltiva il culto dei propri personali Lari e Penati, gli autori e le opere che più ama, le scelte che l’hanno aiutato a diventare ciò che è. L’uomo è quello che legge non solo ciò che mangia. Se una notte d’inverno un viaggiatore mi chiedesse consiglio, non avrei dubbi: gli suggerirei Calvino e Levi in primo luogo, i maestri della classicità novecentesca; e subito dopo le storie di uomini, alberi e animali narrati da Rigoni Stern.
La scrittura è un mestiere che va scomparendo. Come accade ai riparatori di ombrelli e agli arrotini, le parole faticano a trovare acquirenti. Nonostante si scriva sempre di più, e sempre più si pubblichi e si condivida, la lingua della scrittura è scarnificata sino all’osso in nome di una semplicità che non è immediatezza, spontaneità, sperimentazione creativa, ma povertà e miseria. Come i neuroni con l’avanzare dell’età, anno dopo anno grappoli di parole spariscono dalle pagine dei quotidiani per far posto a fotografie, immagini semplificate, infografiche, il segno inequivocabile della resa e del (disperato?) tentativo di sostenere le tirature.
Tuttavia anche le immagini, i segni, i simboli, i codici visivi, si fanno più elementari e modesti: il prezzo da pagare perché siano riconosciuti e in qualche modo compresi. Cosa mai suggerirà a un adolescente solo un poco più curioso della media l’immagine del solito San Sebastiano ritratto in posa concupiscente? Il rischio che sia scambiato per il manifesto di una setta BDSM particolarmente crudele non è poi così improbabile.
Foto in apertura: Marcel Proust imbraccia una racchetta da tennis a mo’ di chitarra.