Bisogna avere molta comprensione per chi, da piccolo, ha vissuto Star Trek come un appuntamento ineludibile (ed è cresciuto configurandosi sui sistemi sociali vulcaniani, mentre tutti gli altri bambini guardavano La casa nella prateria). Più tardi, divenuti adulti, una nuova epifania è arrivata negli anni Duemila, con Battlestar Galactica (un capolavoro assoluto, praticamente irripetibile).
E poi? Ci si è sentiti un po’ soli, ammettiamolo. Niente serie che reggessero le aspettative, nessuna lettura davvero febbrile. Si rispolveravano i classici, si faceva qualche sortita nel fantasy, ci si è dopati con gli eroi Marvel, ma insomma, niente colpi di fulmine. Poi, improvvisamente, su Netflix è arrivato The Expanse.
La serie, che nel frattempo dopo due stagioni è passata da Netflix ad Amazon Prime Video (p.s.: grazie Bezos, la programmazione è davvero sci-fi friendly: sei un nerd come noi e non ti vergogni di dimostrarlo), ripartirà il 16 dicembre con la quinta stagione e, di questi tempi, significa che funziona. È tratta da una space opera nata dalla penna di Daniel Abraham e Ty Franck, che si firmano sotto lo pseudonimo di James S.A. Corey.
Il primo romanzo, Leviathan-Il Risveglio, con cui si apre anche la prima stagione della serie tv, è stato candidato al Premio Hugo nel 2012 (era in corsa con i romanzi di George R. Martin e China Mieville, per dire) e costruisce, su scala galattica, un thriller al cardiopalma.
La storia, in breve, è che la specie umana ha colonizzato Marte e tutta la fascia degli asteroidi, fino ai confini del Sistema Solare. La supremazia politica della Terra è minacciata dalle nuove generazioni di uomini marziani, cresciuti quasi militarmente nelle colonie, che guardano ai terrestri come parassiti corrotti e avviati al declino, ma ne invidiano le radici. Poi ci sono i belters – che rappresentano l’idea più originale del romanzo – ovvero gli uomini e le donne che vivono sugli asteroidi della Fascia e che, nati in assenza di gravità, non potranno mai sbarcare su un pianeta. Sono figli di nessuno, pirati, rivoluzionari, contrabbandieri. Rappresentano il guizzo dinamico, l’imprevedibilità di un impianto narrativo solo apparentemente fissato su blocchi contrapposti.
In questa scacchiera planetaria, si muovono due uomini che più diversi non potrebbero essere: un poeta filosofo, il detective di polizia Jo Miller, e un eroe, James Holden, ufficiale di marina senza macchia e senza paura (la sua nave – ogni allusione è perfettamente intenzionale – si chiama Rocinante).
Cosa dire? La fantascienza paga sempre un tributo allo snobismo culturale, lo sappiamo. Eppure, se vogliamo, da Orwell a Philip Dick, fino Richard Matheson, questi romanzi hanno avuto una spinta profetica, uno sguardo più lungo sull’esistenza e sulla natura umana che molta letteratura “alta” non ha saputo avere. Possiamo davvero discriminare, oggi, Margaret Atwood, Jeff Vandermeer o Ian McDonald?
Nel caso di The Expanse, quello sguardo di cui parlavamo è sullo spirito di conquista di altri mondi. E sulla natura dell’uomo, divorato dalla curiosità, che lo spinge perennemente in avanti, alla scoperta. La serie letteraria, che è arrivata all’ottavo libro, porta queste vicende e queste domande alle estreme conseguenze, lavorando su prospettive narrative sempre differenti, in un gioco di costruzione dei personaggi che si amplia libro dopo libro.
La serie tv ha saputo essere all’altezza, senza sbandamenti nella trama e con un rispetto profondo dei personaggi, condensando i vari filoni di trama in puntate compatte e decisamente spettacolari. Se vi scapperà un binge watching, non allarmatevi. Io ho già avvertito la famiglia che il 16 dicembre ho un impegno.