L’incredibile storia dell’Isola delle Rose. Iniziamo dal titolo. Non è mai facile comporlo e scriverlo giusto. Da un lato bisogna aprire al racconto, dall’altro c’è da non dire tutto o niente, ma comunque qualcosa, mai semplice.
Credo che il titolo in generale non sia mai solo un gesto narrativo, c’è sempre un grammo di pathos che sfugge, non si può resistere. Questa volta invece è ben giusto di parole che insieme ne dicono tante, sembra una favola per bambini e invece è una storia di adulti.
Incredibile di certo, tant’è che se non ci avessero detto subito che tutto il récit è tratto da una storia vera, non ci si crede per niente, almeno noi nati tanti anni dopo (e sui libri di storia, per chi li ha aperti, di certo non ci si trovano queste cose, non sia mai).
Quelle foto a fine film lasciano di certo un certo amaro dappertutto e quel fresco filo d’aria di libertà che così misterioso ogni tanto passa per tutti. Meno male.
E invece questa storia è davvero storia, accaduta in quell’“anno dagli allineamenti stellari strani”, il 1968, come disse una volta Renzo Piano in una conferenza a Parigi, parlando degli anni precedenti al progetto del suo Centre Pompidou (inaugurato nel ’77).
L’isola è certo il termine giusto, proprio perché è indefinito ma romantico, nostalgico. Chi non ha mai sognato di finire i propri giorni su un’isola paradisiaca e deserta, senza doveri e obblighi con tanto di cartelli che iniziano per “vietato”. Poteva essere definito piattaforma, quel quadrato di venti metri per venti che, visto così, galleggiante sull’acqua salata fuori Rimini, agli architetti fa venire in mente una tanto bella utopia, una di quelle di Superstudio o Archigram, per rimanere in quegli anni. E invece è proprio un’isola.
Un quadrato perfetto, solo una terra di cemento sotto ai piedi, il cui arredo all’inizio del film è fatto solo di un ombrellone Algida – che fa da capanna vitruviana un po’ di anni dopo Vitruvio anche se il senso è quello – e di un rubinetto per l’acqua dolce per l’aperitivo semplice. Una sedia sdraio.
Delle Rose suona bene perché dà fiducia, darebbe serenità agli animi dei turisti stressati e poi sembra il nome di un Hotel tre stelle della costiera romagnola. E richiama il nome del protagonista della storia, che si chiama Giorgio Rosa e la rosa, si sa, è romantica sempre, anche quando poi appassisce.
L’incredibile storia dell’Isola delle Rose è un film di Sydney Sibilia, uscito il 9 dicembre (ancora) su Netflix, con Elio Germano, Fabrizio Bentivoglio, François Cluzet, Leonardo Lidi, Luca Zingaretti, Matilda De Angelis, Tom Wlaschiha, sceneggiato da Francesca Manieri e Sydney Sibilia.
Lui è un giovane regista di Salerno che oggi vive a Roma. Ha anche fondato una casa di produzione insieme a Matteo Rovere, Groenlandia. Bel nome, chissà a che cosa si ispira.
Questo film racconta la storia di un giovane ingegnere di Bologna, Giorgio Rosa (Germano), che nel 1968 vuole cambiare il mondo, o almeno il suo, e ci prova. Decide di costruire un’isola indipendente al largo di Rimini, in acque internazionali, senza leggi, né obblighi, né divieti. C’entra una ragazza imbronciata, ovviamente (De Angelis). Arriva fino a Strasburgo per far riconoscere l’indipendenza alla sua isola della felicità. Incompreso, solo, ma deciso e caparbio, la mamma al telefono gli chiede se ha mangiato.
In tempi odierni, tra coprifuoco e quarantene preventive, divieti e antilibertà, l’Isola delle Rose la si sogna in pantofole, facendo del corridoio tra sala e bagno un viaggio interiore in barca a vela. Un po’ troppo romantici questi giovani? Tutti gelosi.
Come non ripensare a I love Radio Rock, che aveva lo stesso spirito, e raccontava lo stesso vento marino di libertà di quegli anni.
Giorgio ha forse davvero agito solo per amore, ma del resto vogliamo ripensare all’Iliade e alla guerra di Troia? Per fantasticare, forse l’Isola delle Rose è il simbolo dell’amore vero di Giorgio per la sua Gabriella, per convincerla che lui poteva cambiare il mondo.
Se non ci fossero testimonianze reali, si potrebbe immaginare anche un Giorgio-Ulisse, che fa un viaggio corto o lungo su un’isola inventata per poi tornare alla sua dimora, da Gabriella. Roberto Vecchioni in un’intervista recente sul suo nuovo libro Lezioni di volo e di atterraggio (Einaudi, 2020) azzarda che Ulisse il suo viaggio lungo dieci anni se l’è solo immaginato. Chissà.
Il film invece racconta fatti accaduti, il sogno di libertà di Giorgio Rosa che non diventa realtà. Si fa fatica a non risentire quell’umano senso di ingiustizia che non c’entra niente con i capricci adolescenziali, e che fatica togliere alle parole quella puntina di senso ribelle che verrebbe da sé.
Così, alla fine del film, l’Italia delle leggi scritte con penna indelebile dichiara guerra all’isoletta incantata. Una nave da guerra della marina militare carica di cannoni e polvere scoppiettante – sembra un film di fantascienza ma invece è più un documentario – ovviamente dopo aver assegnato una responsabilità qualunque, che poi chissà perché scivola sempre a mo’ di saponetta alle alghe marine, bombarda e distrugge la palafitta-sogno-di-libertà.
Fine dell’incredibile storia. Quasi quasi il regista aggiunge le foto reali alla fine del film per convincerci che è successo davvero, che paura.
Sembra un bel film di guerra.