Non c’è felicità nei pollai, lo sanno per prime le galline, che una volta almeno si davano alla fuga e oggi si accontentano di becchettare a zonzo con l’unica mira di produrre giù per terra uova migliori quando non fanno, tra i padroni dei Mercato e i galletti che si danno arie di sapere come va se non il mondo almeno il giro del fumo, a cuccia e in postazione per il turno sul calcinculo, l’unica fermata dell’ascensore sociale che non sale proprio perché gira in tondo e al medesimo piano, quando non fanno, le galline, si diceva, la fine del tacchino di Russell.
Anni a studiare scienze economiche, i neo laureati arrivati con l’anello al naso per lo stage premium con in palio la selezione naturale (ma nel gregge la pecora nera – “That gal called Harper” sia chiaro, che non vorremmo essere costretti a fare kneeling, condannati alla gogna di Twitter che trova offensivo qualunque cosa definisca l’identità, avendo di mira l’omologazione universale, a partire dalla lingua, trovando sia più rispettoso essere indicato come generico nulla, “You have to say this guy!”, ma allora anche Lives Matter perché specificare Black, vero Demba Ba? quando piuttosto razzismo significa essere scelti ad hoc perché la produzione si vuole dimostrare progressista utilizzando per semenza una coppia gay clandestina e come main course una ragazza di colore, niente da dire a proposito Kamala? – il certificato se lo fa falsificare, e poiché di soldi veri ghe n’è minga, si baratta direttamente il culo in faccia su Skype: tanto è chiaro che serve di più nella vita saper twerkare se tutti belano allo stesso modo con uguale competenza: i dread da rasta faranno tanto foglia di fico per i capi che si vorrebbero up to grade, e credono che, siccome lo dice Lena Dunham, a New York si faccia così, per non passare come i soliti cockney provinciali col taglio istituzionale da broker, ma la mente in azienda è meglio versione tabula rasa così i Managing Director non hanno neanche l’incombenza del reset e i Junior Account quella di scollegare il cervello) sono pronti per imparare quello di cui un pischello a quattro anni diffida se ha in casa il libro di Collodi: convincere qualcuno a cedere denaro nella speranza che aumenti. I soldi si fanno coi soldi è il mantra della serialità capitalistica, lo sanno pure a Brera Guido Maria, meglio se sono quelli degli altri, sono tasse evase o hanno bisogno di un ciclo a novanta gradi.
Negli incubatori che, sverniciati, non sono molto diversi dagli open space dove ai boomer insegnavano a costruire piramidi coi risparmi della nonna, o a camminare sui carboni accesi e ora ti mandano a prendere invece del caffè l’insalatona salutista, consigliano la mindfulness per imparare a essere “quiet and nice” sul posto di lavoro, promettono, una volta si accontentavano di un generico miraggio di carriera, invece ti vogliono soltanto, come sempre, ubbidiente e performante da tastiera – i consigli sbagliati sulla necessità di “fare una buona impressione” quando ti spronano a essere “foolish” metaforicamente e “hungry” fuor di metafora: a essere te stesso ma se sei come ti vogliono e pure stronzo a comando quando si tratta di fare il lavoro sporco al posto loro – e arrivare a fine mese e farti ricominciare daccapo a covare uova d’oro, non di certo felice ma almeno soddisfatto per come “you feel right now”, conta solo la gerarchia perché le parti in commedia sono già assegnate dal principio, pure la meritocrazia è un’illusione se gareggi contro i nati vincenti che hanno fatto scuole migliori né ti salvano più nemmeno quelle che una volta si chiamavano prestazioni fuori orario perché a impegnarsi di più, hanno imparato a controbattere quelli col culo parato, si dimostra solo d’essere consci di contare di meno (col rischio concreto di lasciarci dopo le piume pure le penne) e i soldi alla fine chi li ha si gode pure il lusso di disprezzarli perché tanto, ammette Harper, fanno più gola a lei che non li ha mai avuti.
Nella City sberluccicante tutti paiono giovani, carini e occupati a competere per il proprio posto al sole opaco di Londra e una qualche redenzione, sempre al di là dei vetri, comunque, perché nei pollai una cosa te l’hanno venduta e bene: la speranza di un mondo al di fuori anche se poi, pure se peschi il biglietto vincente, al massimo c’è solo un altro cubicolo, o dancefloor o dehor di ristorante o camera in affitto dove rimuginare sarcastici senza farsi troppe domande se non si è così sprovveduti da non sapere che è un lavoro dimmerda attorniati da coetanee che non lavorano nella finanza ma affittano stanze in condivisione perché stanno “semplicemente vivendo” (di rendita sulle necessità altrui), o fidanzati fricchettoni che cercano tutta la vita il lavoro che gli piace con lo stipendio pagato da startuppari strafatti che confondono se stessi con l’azienda come i cumenda con la fabbrichetta, e mamme che lavorano nell’editoria e perciò l’unico consiglio che possono dare è di fare un buon matrimonio mentre loro si consolano pensando d’essere in grado di scoprire nuovi talenti che facciano coccodé. Un nuovo bastimento carico carico di vecchie umane ambizioni sbarcato non dai gommoni ma sulle scarpe di Zara, pronto a sacrificarsi nel nome della realizzazione di un sé che, a guardarlo bene, è il sé di tutti, e proprio perché di tutti si dovrebbe almeno avere il sospetto non sia nemmeno un sogno ma solo un simulacro.
Nella fantasia delle scuole di scrittura creativa, che altro se non altri pollai?, gli ambienti sono tratteggiati tutti simili: gli sceneggiatori pensano davvero che, trattandosi di favole, il Sales Manager davvero vada in giro tra i cubicoli in mutande o strizzano l’occhio credendo d’essere furbetti? O che Gus si appunti in esergo alla Fiera delle Vanità gli step di una carriera a tutto gas, per accrescimento rapido negli allevamenti intensivi, che a 55 anni dovrebbe portarlo a fare che? il premier?
Se lavori nella finanza dovresti almeno saper bilanciare oneri e onori e accettare un ruolo pubblico solo a tua insaputa se no, povera quella Sanità che ha bisogno dei Ferragnez!, ti trovi a pagare le tasse in Italia e non ti danno nemmeno l’Ambrogino d’oro. E nemmeno si accorgono gli scenografi d’essere indietro d’un bel pezzo sul mondo che non è quello stereotipo che si limitano a riprodurre senza aver mai visto l’originale (nemmeno l’ombra, ma l’ombra di un’ombra nella caverna platonica): gli open space s’adatteranno meglio alla scrittura cinematica delle scontate invidie, dei bullismi da caserma, degli amorazzi intrallazzoni sotto l’occhio di esperti kapò che fingono d’interessarsi al business ma sanno da un pezzo di volere ciò che non hanno più, da vampiri, la giovinezza altrui, e con la scusa del marketing si provano ad arraffare qualche scampolo di potere o piacere sessuale (in nome della parità, pure le manager con la gonna gonna gonna si tolgono le proprie soddisfazioni indotte nel nome della pseudo emancipazione che livella tutto sulla bassezza delle aspirazioni dei maschi babbioni, solo un altro modo, il loro, per restare nella comfort zone dell’omologazione e per gli storyteller di illudersi di non cadere nel cliché), ma fuori dalla versione del mondo secondo HBO-BBC il Capitale s’è fatto più furbo e corre come la tartaruga sempre un passo avanti a ogni sua raffigurazione.
Stop con gli ambienti condivisi dagli Eighties degli impiegati alla Pupi Avati e tutti a casa d’ora in poi con lo smartworking, da soli coi propri demoni sbagliati, legati come Pinocchio alla catena delle ambizioni frustrate, convinti d’essere più liberi e imprigionati invece al proprio ip, presto pagati a cottimo e sorvegliati dai pc mentre ci si illude di riappropriarsi dei propri spazi, a casa ma chiusi dentro, col risultato di rimpiangere i bei cessi d’ufficio di una volta dove si scaricava, tra uno specchio e un orinatoio, come fosse un pettegolezzo biologico, quel che restava della vita e della morte.
Fare una presentazione in PowerPoint è il nuovo fare le fotocopie alla Pierpoint & Co., come si chiedesse di fare trading agli editor della Piersilvio di Cologno Monzese, e se è un attimo confondere il times con l’helvetica, il peggio è darsene pena, che chi così comincia, senza saper distinguere tra la forma (di ricatto) e la sostanza (di cui son fatti i sogni), è un momento che si ritrova a ubbidire quando si tratta di fare cento uova, o cento telefonate, “a lavorare il doppio per ottenere la metà”, a esultare per un rilancio su Dagospia o dannarsi a cercare l’edizione di Harry Potter prima che esca in libreria solo per accondiscendere una povera diavola con la pochette di Prada.
Non è quanto né come lo guadagni, che ti definisce, ma come li spendi i soldi, se no ti avanza la settimana bianca se sei un povero nero, o il black friday se sei un povero bianco, e se hai la botta di culo del dilettante, un contratto in mano e la carta aziendale, a una camera d’hotel di lusso, dove mangiarsi da soli un hamburger a letto in accappatoio, dopo averlo fotografato su InstaGnam, è preferibile “un panino raccattato per terra” col sapore del paradiso, alla fermata all’angolo dove tirare mattina aspettando i bus rossi a due piani, in barba al coprifuoco, in compagnia del virus coronato che come i reali predilige le ore piccole e apre le gabbie al popolo quando c’è da spendere la tredicesima (gli altri giorni tutti in coda per il pane in viale Tibaldi): l’unico posto che resta, nel quadro se non ti rassegni a vivere da quadro, per restare nell’autentico.
È un attimo nella Industry passare da gallina a maiale, se accetti di toglierti l’anello al naso perché ti dicono, per il tuo bene, che non sei una mucca. Non è un mondo per poveri se si fanno sogni da poveracci (i “many” del Labour party sono vacche nere con uguali aspirazioni ai “few” e “quelli che pensano con la loro testa” sono parte del folklore). Al limite, mentre fai pace con Vanity Fair, all’Harper’s Bazaar, puoi scaricare l’app che ti rende indietro il 10% degli acquisti in cashback (e non è nemmeno così).
- Industry è una serie tv britannica creata da Mickey Down e Konrad Kay alla prima stagione di otto episodi per HBO e BBC
- Per altri (S)visti di Gabriele Nava, qui