L’andamento favolistico è frequente nella letteratura dell’America Latina di cui il premio Nobel Mario Vargas Llosa è, di sicuro, una nobile espressione. Per parlare di titoli di nobiltà, del resto, al riconoscimento del Nobel nel 2010 se ne aggiunse un altro nel 2011, quello di marchese assegnatogli dal re Carlos I durante la sua residenza in Spagna. Ma così varia è la vita di don Mario: dopo avere sostenuto Castro e la rivoluzione cubana è noto per essere, poi, passato nelle file dei conservatori peruviani (lui peruviano) onde contendere la presidenza a Fukuyama e, infine, per aver peregrinato quasi in esilio altrove (un tempo anche a Firenze di cui diventò cittadino onorario) classificato come neoliberista, prima di stabilirsi definitivamente nella penisola iberica dove espresse contrarietà riguardo le aspirazioni nazional-autonomistiche della Catalogna.
Strano giro, no? Ma ve l’ho detto: l’andamento favolistico è frequente nella letteratura dell’America Latina e, come si sa, il fatto che le favole abbiano un lieto fine o il contrario è nella facoltà di chi le racconta o le riracconta quanto di chi le ascolta o le riascolta. Le versioni di una favola, voglio dire, possono essere molte, ma di sicuro una sola è quella dell’autore dalla quale tutte le altre discendono, e in questo senso Vargas Llosa con Tempi Duri (Einaudi, 2020) racconta la sua: unica ma a disposizione di tutti.
Dunque dalla favola narrata da Vargas Llosa bisognerà partire, per parlare di Tempi duri, pur nella consapevolezza che la troveremo carica di tutte le ambiguità e le contraddizioni della bizzarra esistenza dell’autore, ma anche che leggeremo un racconto che mi permetto di definire esatto, talché ognuno possa credere di aver ricevuto gli strumenti per una sua personale interpretazione e riconosca allo scrittore il pregio dell’onestà intellettuale.
In tal senso questo libro può apparire secco, a volte persino arido e puntiglioso, ma non lo è per niente. Anzi: è adatto all’esercizio della fantasia. Vediamone alcuni tratti. Il paesaggio è il Guatemala con i vulcani, le foreste pluviali e gli antichi siti Maya, ma per lo più la storia si svolge nella capitale dove una borghesia compradora (militare, religiosamente bigotta ma spesso corrotta nei costumi) svolge servizi per conto terzi, che sono: le 14 più importanti famiglie di fazendeiros, la cosiddetta Frutera (United Fruit Company) e gli interessi geopolitici degli Usa tramite Cia. Tutt’intorno il valzer dei caudillos tipici dell’America Centrale (siamo ai tempi di Trujillo che da trent’anni domina la Repubblica Dominicana) e di fate/streghe (fatale una certa miss Guatemala, che passerà dall’uno all’altro di certi personaggi) mentre, intanto, i destini di tutti si compiono. Una storia di fate, dunque, orchi e coboldi, ma il popolo vero non c’è o, se c’è, è vittima di maneggi e ricordato quasi solo per l’indigenza, il colore della pelle e le origini indie. Ricordato più per compassione che per altro.
Tutto molto strano, dunque, come nelle favole laddove il messaggio a volte viene esplicitato col lieto fine, ma può prestarsi anche ad altre interpretazioni. Basti ricordare le numerose esegesi critiche della favola a noi italiani più cara, Pinocchio, allocata nell’Italia di fine Ottocento, tra un paesaggio contadino e un conglomerato urbano prima ancora che nel ventre della balena, fra gatti e volpi, fate turchine, geppetti, luciferi, grilli parlanti, mangiafuoco e autorità costituite (la scuola e i carabinieri) talché nel lettore si scateni ogni fantasia. Mario Vargas Llosa, riesce nella stessa impresa, ammesso fosse nelle sue intenzioni? Siamo ben oltre gli anni Duemila quando questo libro esce, conosciamo il peso dell’informazione e delle fake news, cioè nuovi e più cinici modi di comunicare; c’è chi dice che con questo libro l’autore abbia voluto smascherare il peso con cui la disinformazione gravava già sull’America Latina tra i ’50 e i ’60 del Novecento a servizio di interessi costituiti, e che con i mezzi comunicativi odierni la disinformazione si è fatta sistema. Forse… ma forse anche di più o altro. A lui interessa disegnare il carattere inguaribile delle persone di potere; lo scarso peso delle ideologie e delle fedi; la contraddittorietà nell’evolversi delle relazioni umane e sociali; la spinta all’arricchimento e all’ingordigia dei sensi che su tutto prevale.
Possiamo, allora, definire Mario Vargas Llosa anziché un neoliberista, un vecchio moralista, uno che in questo libro terrà la questione socialista e comunista sempre sullo sfondo, evocata come questione geopolitica che gli Usa giocano sullo scacchiere sudamericano infischiandosene dei drammatici risultati? E adesso che il pericolo social-comunista non c’è più, che cosa ci vuol dire l’autore di Tempi duri? Che quei tempi sono finiti? Non mi pare! Ma non vi porterò per mano fino alla fine del libro perché sbaglierei e potrei esaurire il vostro interesse. Anzi, vi garantisco che comunque accogliate la fine, vi resterà il gusto di pensare e di darne una vostra interpretazione, com’è giusto che sia nelle favole: quelle a lieto fine e quelle al contrario. In ultimo, se questo è vero, credo si possa dire che al di là della personalità e delle opinioni politiche dell’autore, ci troviamo in presenza di un grande narratore: di quelli che, avversari o no, ci piacerebbe ascoltare come una volta, con qualche brivido di freddo, mentre ascoltavamo le loro storie davanti al caminetto. Meglio della televisione, io credo. Cioè, molto meglio. Figuriamoci dei social network.
IL LIBRO Mario Vargas Llosa, Tempi duri, Einaudi
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