Il creatore della serie per HBO è lo stesso David E. Kelley di Little Big Lies, arabesco interminabile attorno a un gruppo di amiche legate da un segreto – l’omicidio/incidente occorso a un maschio violento – ognuna di loro a rotazione, puntata per puntata per due stagioni, sull’orlo della crisi di nervi che può perdere lei e le altre.
Per il bis – posticipato dal Covid – il writer e producer, classe 1956, sposato con Michelle Pfeiffer e uomo ubiquo e dal cv interminabile della tv Usa, ha ripescato Nicole Kidman e l’ha piantata come una boa al centro del plot di The Undoing, tratto dal romanzo You Should Have Known (Una famiglia felice, Piemme, 2014) di Jean Hanff Korelitz.
Quell’“Avresti dovuto saperlo”, riguarda prima di tutto lei, Nicole Kidman, che fa la psicologa a Manhattan e si trova il mystery psychological thriller direttamente in casa, nei panni del marito oncologo pediatrico Hugh Grant – in ennesima versione empatico simpatico super piacione ma stavolta inseguito dalle tenebre dei dubbi altrui; be’, Grant le sparisce da un giorno all’altro in concomitanza di un efferato omicidio (Matilda De Angelis, artista e ragazza inquieta, è uccisa e sfigurata con una dozzina di martellate). Stop. Nessuno spoiler da qui in poi.
Peccato che Nicole Kidman alta e ingessata nei suoi stretti cappotti verde elettrico o arancio brillante, coi capelli a filo spinato e le sembianze di un cappellaio matto preraffaellita, sia una secchiona ma non possieda alcuna perspicacia analitica – il che si vede pure da come la prendono a pesci in faccia i pazienti nelle normali sedute.
Breve: le sei puntate della serie, dovendo trovare un leitmotiv, si basano sulla sua capacità di incamerare ed elaborare segni e indizi, lapsus e colpi di testa, drammi e svolte sorprendenti, e di maturare una diagnosi corretta dei personaggi – Grant in primis – che le ruotano intorno in una storia che si trasforma procedendo in un court movie. Post scriptum: sempre a meno che non sia proprio lei, Nicole Kidman, ad aver bisogno d’aiuto.
Susanne Bier, regista danese di buona personalità, perde la possibilità di fare un buon film per il semplice fatto che deve seguire il linguaggio tipico delle serie. Sei ore, sei puntate, che partono ognuna con un siparietto shock, proseguono per un tot, e finiscono col fine puntata shock in cui a turno ognuno dei personaggi (dal figlio della coppia al nonno, un più che dignitoso Donald Sutherland) si trova allo sprofondo e al centro dei sospetti.
Visto tutto di fila, come abbiamo fatto noi su Sky Atlantic, la narrazione strema per questo bisogno di continuo rilancio della tensione e del mistero che diviene in realtà un rilancio di routine, un thriller di Sisifo. Ma il finale non è stupido. Comunque, ripetono gli spettatori anziani, sarebbe stato meglio un film.
- Fulvio Carbonato è un pubblicista milanese