«C’è un’esperienza di distruzione e di morte che coinvolge l’intero pianeta. E’ il diluvio universale. E c’è Noè che sopravvive con l’arca. Quando finalmente Noè scende a terra, il primo gesto che compie, secondo la Bibbia, è quello di piantare una vigna. Un gesto che ha un significato simbolico prezioso. Noè pianta una vigna e guarda avanti. Progetta il futuro. Ecco, noi che siamo ancora rinchiusi sull’arca in questo tempo di pandemia che non è ancora esaurito, dobbiamo essere tutti un po’ come Noè. Dobbiamo avere il coraggio di piantare una vigna, che è fare un progetto, che è ridare possibilità al mondo di avere un futuro».
L’importanza di essere come Noè è una delle cinque lezioni della pandemia secondo Massimo Recalcati, psicoanalista, saggista e docente universitario, protagonista di Essere vicini e lontani, incontro online organizzato da CUBO, il museo d’impresa del gruppo Unipol con sede a Bologna.
Stiamo vivendo una fase storica nella quale il distanziamento ha aperto un vuoto tra le nostre vite e nella nostra vita.
«Un tempo dove “vicino” non è alternativo a “lontano”» dice Recalcati, «nel quale stiamo sperimentando una forma particolare di vicinanza che passa attraverso la lontananza». Ciò non significa essere meno presenti. «E’ la prima lezione di questa pandemia. Che ci ha insegnato che ci possono essere forme di vicinanza anche nella lontananza dei corpi: in passato lo avevano spiegato molto bene i poeti stilnovisti quando, per esempio, descrivevano la dama oggetto del loro desiderio come inaccessibile, lontana. La distanza, però, non era una semplice lontananza ma qualcosa che accendeva il desiderio, e generava poesia. Dobbiamo tenerlo presente. Noi siamo lontani e vicini, separati dagli altri ma straordinariamente in contatto grazie anche alla potenza della tecnologia. Come quegli amici che vediamo pochissime volte eppure sentiamo sempre accanto».
La seconda lezione è quella della cura, il virus ci ha insegnato l’importanza del prendersi cura. Recalcati ricorda Hannah Arendt, «gli esseri umani non sono fatti per morire ma per vivere. La morte di un essere umano ha sempre qualcosa di innaturale e di atroce». Prendersi cura significa «separare, distinguere, mai sovrapporre un nome con un numero». La violenza del virus ha confuso i nomi con i numeri. «Ancor più atroce della morte è la morte anonima, quella che cancella il nome, che impedisce il rituale del congedo, la cerimonia della sepoltura, il lutto, che è espressa solo attraverso numeri, percentuali, curve epidemiologiche». Proprio come tante morti soprattutto della prima ondata della pandemia. «Mai dimenticare che questi numeri sono fatti di volti e di nomi».
Recalcati cita La peste di Albert Camus, là dove il pastore in una prima predica attribuisce alla peste il significato di castigo di Dio ma, dopo l’esperienza straziante dell’agonia di un bambino, in una seconda predica si corregge. «La peste non è un castigo, se così fosse sarebbero colpiti solo i malvagi. Invece muoiono anche i giusti, chi non ha peccato. La peste è il male di cui non possiamo spiegare il significato. Il nostro compito è restare vicini a chi dal male è colpito. Ecco cos’è la pratica della cura. Quella dei medici, del personale sanitario, dei volontari. Ma lo è anche la resistenza degli insegnanti che restano vicini ai loro allievi pur nella forma della didattica a distanza».
Il trauma individuale e collettivo è la terza lezione del Covid. È l’esperienza dell’inatteso, del chi poteva immaginare che: «Tutti eravamo impreparati a sostenere l’impatto con il trauma, eravamo senza difese, senza possibilità di concepire un evento del genere». Da qui due angosce profonde. La prima, quella del contagio: «L’intruso, il nemico che porta la morte, ha fatto irruzione nelle pieghe più intime della nostra vita, è penetrato nei nostri corpi, ha “corrotto” i nostri parenti e amici. Lo schema difensivo mentale tramite cui reagiamo al pericolo, che separa l’amico dal nemico, il noto dall’ignoto, è saltato».
La seconda è l’angoscia da intrappolamento, non c’è possibilità di uscire perché il virus è ovunque e l’unica protezione è il confinamento. «E’ un’angoscia depressiva. Una depressione molto diversa dai più consueti quadri depressivi. Là dove la vita di un depresso è dominata dal passato, da un’esistenza rivolta a ciò che si è perduto e non ha più orizzonte, la nostra angoscia investe invece il futuro: quando potremo tornare a fare la vita di prima, a incontrare gente, a viaggiare? Il mondo come lo abbiamo conosciuto potrà ancora esistere o sarà perduto per sempre?». Non è un caso che un recente rapporto Istat dia come facilmente prevedibile un drastico calo delle nascite «perché per fare un figlio bisogna avere il sentimento del futuro».
La quarta lezione, «la più preziosa», è che il Covid ci ha insegnato l’esistenza di un’altra versione della libertà rispetto «alla volontà anarcoide di fare quello che vogliamo» con cui siamo cresciuti negli ultimi decenni. Abbiamo vissuto un tempo «che ha guardato con sospetto qualsiasi azione educativa che mirasse a fare sentire quanto fosse importante l’esperienza del limite per dare forma alla vita. Una concezione individualistica neolibertina della libertà che ancora oggi si ripropone nel vivere con disprezzo il fatto di dover assumere comportamenti responsabili – il distanziamento, la mascherina – come se fossero una dittatura sanitaria, una repressione liberticida, una compressione dei nostri diritti individuali». Tutto questo va letto in un’altra luce: «Accedendo a un altro concetto di libertà. La libertà come responsabilità, solidarietà, fratellanza, condivisione. Una libertà che tiene conto dell’esistenza dell’altro, senza il quale la vita è nulla, senza significato, perché noi siamo esseri di relazione e la relazione è il nutrimento della vita umana». Il Covid, che ci ha resi consapevoli dell’importanza delle relazioni quando ci ha impedito di viverle, ha amplificato la doppia caratteristica che definisce la relazione umana. «Da una parte siamo nulla fuori dalla relazione, dall’altra dipendere da una relazione è elemento di destabilizzazione». Un concetto che Recalcati spiega raccontando come, durante il lockdown di marzo, uscisse solo per portare a spasso il suo cane. «Quando incontravo un’altra persona con il cane il mio primo moto era di avvicinarmi, di salutarla. Ma nello stesso tempo pensavo che l’altro, o io per l’altro, potesse essere fonte di contagio. E mi allontanavo».
L’arca di Noè è l’ultima lezione, la quinta. Scenderemo dall’arca un giorno «e dovremo essere coraggiosi e positivi. Noi tutti dovremo piantare una vigna, cioè intraprendere un progetto di lungo termine, fare esistere il futuro. Il dono più grande, in un tempo di pandemia e di distruzione – come è stato il tempo del diluvio per Noè – in cui la paura ci sommerge. Tutto rivivrà, se affronteremo quello che ci aspetta con voglia di fare e di ricostruire».
Di Massimo Recalcati è uscito The Night in Gethsemane per Europa Editions, versione in inglese de La notte del Getsemani (Einaudi)