La prima volta che ho sentito nominare Joyce Carol Oates fu in relazione a Chappaquiddick, l’incidente e il black out mentale (criminale) che tolsero per sempre Ted Kennedy dalle corsie presidenziali. JCO aveva ricostruito la vicenda in un piccolo romanzo, Black Water, uscito da noi come Acqua nera, per Anabasi (1993), dove la storia è narrata da Kelly Kelleher (alias la vera e povera Mary Jo Kopechne) la quale annega dopo che la Toyota del Senatore è caduta in acqua e mentre lui sta pensando a come salvarsi vita e, se possibile, pure la reputazione.
Tempo dopo, annoto che uno degli aggettivi che maggiormente accompagnano le storie di JCO è gotico, inteso in senso largo, come capacità di guardare l’abisso per farne scrittura (e viceversa). Annoto pure che JCO, cent’anni prima di ogni MeToo, legge benissimo il clima di ostilità tra i sessi: a Chappaquiddick, per esempio, in Acqua nera, affoga metaforicamente l’impotenza femminile che è tale in rapporto alla violenza maschile.
Nella quadrilogia dell’Epopea americana, da poco ripubblicata da Il Saggiatore, il fattore gotico può essere così evidente da incarnarsi nello sterminio intero di una famiglia, e la vicenda di Nel Paese delle Meraviglie (1971) non risparmia neppure le “famiglie acquisite”, quelle alla Charles Manson, per cui JCO ha un penchant e in una delle quali finisce la figlia del protagonista.
Altrove, nella sua prolifica carriera – una maratona fatta di romanzi, saggi, poesie, JCO si è sforzata pure di raccontarci in modo più gentile e tradizionale – ma non meno incisivo e sottilmente perfido – i sentimenti e i peccati di un nucleo famigliare.
Ricordo per esempio lo spettacolare We Were the Mulvaneys (Una famiglia americana, Il Saggiatore) del 2002, imperniato su un “incidente” quasi rimosso, un romanzo che è parente stretto – ho sempre pensato – per ricchezza di racconto e per acutezza di sguardo, se non per respiro storico, della Pastorale di Roth (1997).
Mi fa piacere incontrare la JCO che ho amato di più – ho apprezzato di meno quella più post moderna, riscrittrice di miti contemporanei (Zombie sul cannibale Jeffrey Dahmer, Blonde su Marilyn o il saggetto sulla boxe di Tyson) – in Ho fatto la spia (La Nave di Teseo).
Al centro, una dodicenne, Violet Rue, di numerosa famiglia di ceppo irlandese, che in un paesino a uno sputo dalle Cascate del Niagara, viene sfiorata da un orribile fatto di cronaca. L’omicidio di un ragazzino nero. Chi prima l’ha investito e poi teneva in mano la mazza da baseball era Les, l’amato fratello… Ma fosse tutto qui quello che la aspetta. Con virtuosismo di racconto – passando dall’io al tu, senza mai offuscare lo sguardo vergine di Violet Rue e costruendole a poco a poco una vita in costante fuga, as a rat, da spia – JCO conferma i tratti che le conferisce il bigino dell’Enciclopedia Treccani: predilezione persino eccessiva per le situazioni limite, scrittura morale e non moralista che aspira a elevare di un gradino il personaggio che apre gli occhi davanti al male. E il lettore.
Ho visto JCO vent’anni fa in una libreria di New York, dove mi sono messo in coda per farmi firmare una copia di Man Crazy, una storia di setta, se ricordo bene. Lei era ancora più piccola e magra di come mi aspettavo, aveva gli occhiali ancora più grandi, e in quel secondo in cui mi scriveva una dedica ho sentito che era nervosa ed elettrica, attenta ai particolari e alla folla intorno come le ipersensibili narratrici femminili dei suoi libri. È ovvio che non era davvero così, ma così mi sono immaginato, per l’emozione di vedere JCO scrivere (!) sulla pagina che le porgevo.
IL LIBRO Joyce Carol Oates, Ho fatto la spia (La Nave di Teseo)
Credit: “Joyce Carol Oates” by Oregon State University is licensed under CC BY-SA 2.0