«È molto difficile, se non impossibile, spiegare il Pci a chi non l’ha frequentato, e ancor meno a chi non ha vissuto quegli anni: ci vorrebbe forse un grande scrittore, assai più che uno storico o un politologo, per raccontarne la storia sentimentale, che per molti aspetti mi appare più interessante, anche perché pressoché unica, della sua storia politica».
Fabrizio Rondolino apre così Il nostro Pci (Rizzoli), titolo sentimentale per un gigantesco lavoro di documentazione che di sentimentale ha davvero molto, uscito in occasione del 100° anniversario della costituzione del Partito Comunista.
Classe 1960, in politica dal 1976, cresciuto nella Fgci, giornalista all’Unità, portavoce di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi, incarico da cui si dimise per le polemiche suscitate dal suo romanzo Secondo avviso (Einaudi) dal taglio erotico, un ultimo “amore” per Matteo Renzi poi finito nel nulla, nel buen ritiro nella campagna Sabina dove vive da tre anni Rondolino ha composto un volume che racconta un altro mondo. Perché nello sfogliare le 450 pagine che raccolgono aneddoti, distintivi, tessere, immagini e cimeli si ha l’impressione di tornare a un tempo che non esiste più.
Nell’introduzione de Il nostro Pci Rondolino racconta della prima tessera della Fgci presa nel 1977: «Seduto con il segretario della cellula comunista del mio liceo a un tavolino di formica: era pomeriggio inoltrato, fuori era già buio, il segretario parlava e io ascoltavo impaziente, e quando infine presi la tessera tra le mani mi sentii pieno di orgoglio, come se avessi vinto un premio tanto agognato quanto prestigioso. Mi sentivo definitivamente arruolato in una comunità che marciava solidale dalla parte giusta della storia».
Qualcosa che ora è difficile anche immaginare. «La tessera del Pci è oggi il coriandolo colorato di un mondo che non c’è più: ne è un frammento minore e minimo, e tuttavia di grande significato, sia per la storia dell’iconografia e della propaganda comunista, sia per il valore sentimentale che ha rivestito nella storia soggettiva di chi in quel partito ha militato e, soprattutto, vissuto» scrive.
E ancora: «Non si riesce a comprendere fino in fondo la storia politica del Pci se non si prova anche e soprattutto a cogliere la specificità emotiva e culturale, umana e psicologica, etnica e antropologica di quell’esperienza che non ha paragoni nella politica contemporanea e che appare senz’altro irripetibile nell’Italia di oggi». Rondolino lo ricorda in una bella intervista a L’Espresso: «Un equivalente del Pci non c’è: ciò che più si avvicina è lo scoutismo, al netto della fede. Era un mondo molto valoriale, una vera e propria comunità, caratterizzata da solidarietà interna, meccanismi di cooptazione, intensa attività».
Il Pci «grande comunità autosufficiente, con cellule in ogni fabbrica, ufficio, scuola, università, sezioni in ogni quartiere», il Pci «che amministrava centinaia di Comuni, che pubblicava un quotidiano che vendeva centinaia di migliaia di copie e un settimanale culturale che ne vendeva decine di migliaia, che disponeva di una catena di radio locali e poi di tv, che aveva una casa editrice, una catena di librerie, quattro centri studi, numerose riviste accademiche e la Scuola delle Frattocchie», quel Pci si ritrova tutto nel volume di Rondolino. Insieme alla riproduzione di tessere, manifesti elettorali (“non votare Democrazia Cristiana, te ne sei pentito almeno tre volte, vota comunista!”), adesivi, bandiere rosse, distintivi, coccarde, fazzoletti e festoni per la festa dell’Unità.
«Ho conosciuto e vissuto nella mia vita due diversi Pci» scrive Rondolino. «Il primo è quello degli anni del liceo che ho visto “da fuori” come militante e quadro di base, in anni di grande entusiasmo e grande successo». Il secondo «l’ho conosciuto a Roma, prima alla direzione nazionale della Fgci e poi al servizio politico dell’Unità, nelle stanze di Botteghe Oscure. Erano gli anni del tramonto ma la barca pareva ancora solida».
Il nostro Pci copre i 100 anni del partito ed è diviso a capitoli: si va dal Partito dei Lavoratori al Partito comunista italiano (1892-1921) al fascismo e agli anni della clandestinità (1922-1942), dalla Resistenza alla Liberazione (1943-45) ai segretari Togliatti (1945-64), Longo (1964-1972), Berlinguer (1972-1984), Natta (1984-88), Occhetto (1988-1991). Il capitolo conclusivo si intitola “Dopo il Pci” e arriva fino a oggi.
Il partito aveva come motto “Veniamo da lontano, andiamo lontano”. A chi gli chiede se oggi ha nostalgia del Pci e di quell’esperienza, Fabrizio Rondolino risponde: «Non mi considero un nostalgico, se non per il fatto che si tratta di ricordi di gioventù. C’è questa cosa che disse la Mafai, in cui mi ritrovo: non rinnego e non rimpiango. Non è qualcosa da cui mi separo, ma la nostalgia implica riproducibilità, qualcosa che vorresti ci fosse ancora, o ricostruire. Mentre è evidente che si tratta di una esperienza non riproducibile».
In alto, Enrico Berlinguer in una foto del 24 marzo 1984.
Il libro: Fabrizio Rondolino. Il nostro Pci 1921-1991 Un racconto per immagini (Rizzoli)