Prendiamola pure da lontano. Il regista e sceneggiatore Sam Levinson è figlio di Barry Levinson, celebre per aver vinto un Oscar nel 1979 con un film sull’autismo – ossia sulla difficoltà a comunicare – l’indimenticabile Rain Man.
Forse per contrapposizione o forse per sintonia edipica con il padre – perdonate la battuta non finissima dedicata a questo molto promettente cineasta che con virtuosismo sa spaccare il capello in quattro con un pericoloso coltello da cucina – Sam Levinson è invece noto per aver diretto la più parlata delle serie tv Usa, Euphoria, otto puntate nel 2019 per HBO più due speciali, uno dei quali – imperniato sulla studentessa tossicodipendente Rue, l’attrice Zendaya – è integralmente girato al tavolo di un diner dove la ragazza, caduta di nuovo nel tranello della droga, incontra la vigilia di Natale (per 57 minuti di parole) il suo sponsor Ali.
Ecco. Zendaya, classe 1996, figlia di un afroamericano e di una statunitense di origini europee, ex teenager prodigio per la Disney, ricompare adesso nel lungometraggio Malcolm & Marie – simile nella concezione ma assai meno statico dello speciale al diner – sceneggiato e diretto da Levinson jr, da poco acquistato e appena reso disponibile da Netflix.
È nettamente il film del momento (pandemico): girato a tempo di record in una sola location con due soli attori, durante il primo lockdown e già in preallarme per gli Oscar.
Zendaya è appunto Marie, pure qui ex tossicodipendente, e il suo competitor, Malcolm, è il compagno, un regista emergente, anzi appena emerso: i due rincasano vestiti da sera, in un’iconica e isolata villa di design a Malibu, subito dopo la prima del film di lui.
È l’una di notte, il tempo di Marie per sedersi sul gabinetto, e quello per lui di trastullarsi col giradischi – mette Down and Out in New York City di James Brown – e si capisce che c’è qualcosa che non va, anche se la proiezione è stato un gran successo.
Malcolm ha commesso un errore o un lapsus (imperdonabile?) – non ha ringraziato pubblicamente la sua partner – e questa omissione dà il via a un faccia a faccia, un corpo a corpo, un cuore a cuore di due ore, dove si svelano spietatamente e quasi in tempo reale i meccanismi di una coppia thirty something – le ragione di uno stare insieme sulla soglia del diventare grandi – cui Sam Levinson ha aggiunto, nei toni contrastati del suo sciccoso bianco e nero in 35 mm, almeno due intelligenti spunti narrativi.
Il primo ci porta su una strada complessa e complicata: è la pelle scura della coppia – Malcolm, non l’avevamo ancora detto, è infatti John David Washington, classe 1984, figlio di Denzel e recente interprete per Spike Lee e Christopher Nolan. La blackness potrebbe fornire un ambiguo presupposto di diversità degli amanti (seppure borghesi) agli occhi dello spettatore e nutrire un coefficiente di sottile razzismo, che viene magistralmente compendiato nella recensione di una fittizia critica del L.A. Times al film di Malcolm: l’articolo in apparenza lodativo diviene l’occasione per sfatare in un furente monologo di quest’ultimo tutti gli stereotipi dei bianchi sul cinema dei neri – e accenderà discussioni tra cinefili anche a schermo spento: un uomo black fa solo film black come tutti i meridionali (Troisi docet) non viaggiano ma emigrano?
Il secondo spunto, che concerne il rapporto tra artista e musa dei due amanti, serve a Levinson jr per rendere più sceniche e meno banali le rivendicazioni prima di lei a lui, poi di lui a lei, poi ancora di lei a lui, e così via, riguardanti i temi dell’identità, della dipendenza, della possessività, della gelosia passata presente o futura, del provare a vivere mettendosi in gioco, da soli o in due… Un escamotage che proietta un altrimenti prevedibile volar di stracci in un mondo abbastanza glamour. Piesse: e tutto sommato anche la blackness dei protagonisti, per lo spettatore colto, gioca in tal senso.
Zendaya replica amplificate le prove attoriali di Euphoria. Il piccolo Washington, che inspiegabilmente (o simbolicamente) solo verso il finale allenta la cravatta e scalcia le scarpe, è un gradino sotto. Il loro kammerspiel – molto meno indie grammaticalmente di come ci si aspettava (e non parlate di steadycam a casaccio!) – è punteggiato da ottima e significativa musica nera – peccato che nei sottotitoli non vengano tradotti anche i testi delle canzoni. Da James Brown a Get Rid of Him di Dionne Warwick passando per In a Sentimental Mood di Ellington/Coltrane che strazia anche senza bisogno di parole.
Secondo piesse: “Chi gioca in prima base. Non te lo chiedo, te lo sto dicendo. Chi gioca in prima base” diceva Dustin nel Rain Man di papà Levinson, incastrando l’incomprensione in un mulinello di parole. Lo stesso senso di uno scacco senza uscita – a mano che non si faccia uno scarto o una mossa del cavallo – accompagna lo spettatore nel fiume verbale che si vede rovesciare addosso dall’inizio alla fine del film, mentre fa il tifo per Malcolm o per Marie, mentre rivolge domande a se stesso, mentre (può accadere) sbadiglia estenuato.