Grazie per le magnifiche rose esce di nuovo per Adelphi in versione ridotta, ed è quasi un best of, un po’ obbligato, e si capisce perché. Apparso nel 1965 per Feltrinelli – nella leggendaria collana Materiali, quella con i caratteri della cover battuti a macchina, sottotitolo Tutte le avventure della drammaturgia contemporanea – è un tipico fuoco di fila alla Arbasino, denso di nomi e cognomi, titoli e date, spettacoli teatrali e show mondani, che poggia su quel celebre estro classificatorio “aperto”, pronto dell’aggancio culturale ad amplissimo spettro di un uomo dalle conoscenze sterminate, libero di associare alto e basso, sopra e sotto e pure a lato di quanto vede, capisce e sa – in questo caso – del mondo del palcoscenico.
Best of. Non essendo uno studio teorico, ma una serie di scritti su spettacoli, autori e attori spariti dalla memoria senza lasciare “grandi tracce televisive e cinematografiche” (come da aletta), il volume era stato giudicato non ripubblicabile dallo scrittore di Voghera.
Invece Adelphi ha scavato ora nel folto del vecchio testo e ridotto le pagine da 525 a 147, facendo del saggio-romanzo critico-testimonianza questa compilation a 14 euro, che pone il volumetto tra recenti libri di Arbasino consultabili a mo’ di enciclopedia: per esempio, Marescialle e libertini (Adelphi 2014), che erano memorie musicali, e Ritratti italiani (Adelphi 2014), come da titolo, entrambi sulle 500 pagine, raccolte, imbastite e ricucite insieme per la gioia di chi le consulta.
Quest’ultimo best of potrebbe in teoria essere immortale se, come nel capitolo Una settimana romana, ha simili incipit: “Turbati dagli allarmi sulla crisi del Teatro Italiano che si sono letti in ogni giornale per molti anni…”. Ne segue che, in modalità di understatement costante, il nostro, frequentatore abituale di luoghi meno nobili, “preferendo battere i cinema e le sale da ballo”, esegue una full immersion di una settimana nelle platee della Capitale.
Per dire il tono, tipicamente arbasiniano, basta la ricognizione del primo spettacolo recensito, d’ispirazione sociale, Le ragazze bruciate verdi: immediatamente gli provoca fou rire (come anche, lo anticipiamo, il secondo), e poi un florilegio di ricordi di rivista con la Zoppelli d’antan e, poiché il testo tratta di meretricio, gli squaderna davanti “un gruppo di culone” che recita “animosamente con le sottovesti e coi petti…”.
Nel tour de force, lo scrittore di Voghera trova guarda caso tutto il suo universo iper Kitsch e se va bene Camp e da sempre immediatamente arbasinizzabile: tra Madame Sans-Gêne e La Romagnola, spuntano “checcone vestite da donna” e “bambinacce nere di pelo”, ventagli che fanno frrrr! e trac-trac! e in platea tiare e Balenciaga neri col filino di perle vere, e nei testi “zone turpemente retoriche”, il “d’Annunzio degli afrori” e “vittorinismi alla Saroyan”… Ma fatevi fare gli elenchi da lui stesso, poiché l’imitazione è impossible, comprando il libro. A meno che non abbiate paura – come avvertito sopra – della nostalgia nell’acquistare l’enciclopedia di un mondo scomparso, anzi (forse) di due mondi scomparsi – quello del teatro italiano e anche quello del grandissimo giocoliere che ne fa un torrenziale one man show: Alberto Arbasino, morto a novant’anni, ormai impossibilitato a viaggiare e a guardare, e quindi a scrivere, il 22 marzo 2020.
A margine. Abbiamo incontrato Arbasino l’ultima volta qualche anno fa, in coda alla biglietteria per una prima alla Scala, vecchio molto, troppo, ma bellissimo sempre ed elegante ça va sans dire. Che peccato non avergli chiesto un selfie.
IL LIBRO Alberto Arbasino, Grazie per le magnifiche rose, Adelphi
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