La cosiddetta fantascienza si è spesso dedicata a “…evocare ed elaborare idee ingegnose e inquietanti, spesso con riferimento agli assetti e ai rapporti sociali contemporanei…”.
Così, citando il dizionario Treccani, traiamo gli aruspici per capire in che modo Joyce Carol Oates con Pericoli di un viaggio nel tempo (La Nave di Teseo) nel 2018 si è buttata nel genere, pur rimanendo – naturalmente – molto oatesiana.
JCO immagina nel futuro una nuova America diffusa – transcontinentale – mondiale, assoggettata a una legge di mediocrità che porta all’espulsione – se non alla vaporizzazione – delle anime inquiete o solo belle. Per la cronaca siamo negli SNAR (Stati del Nord America Rifondati), una confederazione assolutamente illiberale nata dopo i Grandi Attacchi Terroristici e la conseguente Guerra Contro il Terrore.
La punizione per le anime belle (quella leggera, e si fa per dire) è finire in esilio in una sorta di FantaSiberia cioè nel nostro passato. Come capita ad Adriane condannata per superbia (ma era solo buon senso) a quattro anni di vita in un college cattolico degli anni Cinquanta. Senza possibilità di tradire la sua condizione. Per la cronaca: finisce all’università di Wainscotia Fall, nel Wisconsin, e cerca di ambientarsi in una (un tempo) idilliaca cittadina del Midwest.
Prima conseguenza della svolta nel racconto: dopo aver assistito all’esecuzione di un ribelle con scoppio della testa in stile Cronemberg, invece di riposarci un po’ passeggiando nel college con Adriane, ci stupiamo di quanto eravamo stupidi nel passato abbastanza prossimo (e di conseguenza nel presente): senza visione del futuro, prigionieri dei credo di ottusi professori comportamentisti (si fa l’elogio di B. F. Skinner e della tesi secondo cui l’inconscio è meglio lasciarlo stare), ragazze in bigodini che stra-fumano sigarette e credono in Dio e nell’amore, e paurosi scenari appena sullo sfondo innescati dalla Bomba…
Figuriamoci come si trova sola per quanto evoluta la protagonista in esilio. E JCO gioca con esso per allestire una proiezione maggiorata e spettacolare della solitudine adolescenziale. Ne fa una iper metafora per raccontare la storia di una crescita e poi di un innamoramento (proibitissimo) qui per colmo di drammaticità nato con un altro probabile esiliato dello SNAR – il professor Ira Wolfman (nomen che potrebbe essere omen).
La fantascienza, insomma, come scusa per raccontare al quadrato (e con occhi nuovi, puri) una storia di college sospendendola sul canone di un’alterità lancinante. Ma non può essere tutto qui. E infatti…
Attraverso il continuo aggancio alle teorie di Skinner, al sentimento di una vita preda di un determinismo animale che manda in malora l’idea stessa di coscienza – col topo che per paura o abitudine non esce dalla gabbia anche se gli fanno esplodere lo sportello – si fa avanti, amplificato, un tema oscuro e disturbante del romanzo, e proprio perché interpretato da un’eroina venuta da un altro mondo.
Le domande ossessive che accompagnano Adriane e raddoppiano il suo costante interrogativo – “come devo comportarmi se voglio essere perdonata e tornare a casa?” – si riversano in una drammatica ricerca di senso e di autenticità: “Ma chi sono io qui e ora? Esiste il Paese da cui mi hanno esiliata? Ed esiste sul serio questo posto e la gabbia da topo dove sto vivendo?”.
La risposta di JCO sarà all’altezza. Se avete presente, per stare all’Abc della fantascienza, la storia d’amore impossibile tra Winston e Julia in 1984, capirete quanto è crudele rinnegare oppure semplicemente dimenticare da dove veniamo, il nostro passato.
IL LIBRO Joyce Carol Oates, Pericoli di un viaggio nel tempo, traduzione di Alberto Pezzotta (La Nave di Teseo)
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Credit: “USF_JCO_13” by shawncalhoun