In Scozia nella grande crisi degli anni Ottanta, regnante Margaret Thatcher, una miniera abbandonata offre una quinta di miseria quasi ottocentesca a Storia di Shuggie Bain (Mondadori) di Douglas Stuart.
Agnes Bain, thirty something velleitaria e alcolizzata, è finita nel buco del culo di Glasgow: dal grattacielo popolare di Sighthill dove abitava con i genitori – vecchia e orgogliosa working class – e con i suoi figli, ha traslocato nelle infime casette di Pithead, quartiere immaginario a cui si chiede di essere più vero del vero.
Si gioca a Pithead, Agnes, l’estrema chance per rimpattare con Shug, taxista sessuomane, protestante con anello massone, calvo col riporto appiccicato a sputo – Agnes invece ha preferito farsi cavare i denti e mettere la protesi per averne di bianchi invece che marci – Shug, dicevamo, che ha generato con lei il piccolo Shuggie, mentre i due ragazzini Catherine e Leek c’erano da prima, nati dal rapporto di Agnes con un cattolico benestante ma inetto.
La love story del romanzo, però – lo scopriremo a poco a poco, in coda con lei per i sussidi del lunedì che finiscono in birra e vodka e accompagnandola in avventure quotidiane che ne irridono di regola sogni e aspirazioni – è quella tra Agnes e lo Shug minore, il piccolo, il quale è precoce e spiazzante, ha cura commovente e squisita cortesia per la genitrice, prostrata dall’astinenza o ubriaca in revanche con il vicinato e il mondo, mai arresa nel suo vecchio visone e nelle décolleté scalcagnate – Shuggie che è palesemente gay e oltretutto vittima di bullismo in un ambiente povero e sordido, quasi primitivo, dove l’harassment sessuale è norma e non ha sanzione.
Douglas Stuart – buoni impieghi nella moda a New York, dopo un’infanzia e adolescenza a Glasgow che ispirano queste pagine – racconta questo amore alla stregua – lo ha detto al New York Times – di un “unbreakable filial bond”, di sentimento prima che di dipendenza tra due persone che rimangono a onta di tutto gentili nell’animo. È una carta vincente due volte non buttarla in tragedia: permette a Shuggie di sopravvivere nel rapporto quasi invivibile con Agnes e a Stuart di farne un racconto di coinvolgente e a tratti straziante tenerezza – e quindi un best seller. Ma su questo aspetto ritorniamo.
Forse per capire meglio l’esordio di Douglas Stuart e sapere che libro abbiamo tra le mani, occorre conoscere l’ambiente editoriale e letterario da cui nasce.
Nei fatti. Shuggie Bain è un romanzo pluri rifiutato dalla grande editoria e fiorito infine per la raffinata Grove Atlantic, fresca di Pulitzer per Viet Thanh Nguyen: partito piano, è andato a sorpresa ma non troppo a prendersi lettori e il Booker Prize.
Nella forma. L’autobiografismo di Scout non produce il prevedibile memoir ma un opulento romanzo, costruito con consapevolezza e abilità, al di là di ogni valenza confessional del testo – e pure se c’è un’anticatura dickensiana questa va a tutto vantaggio della tematica sentimentale.
In altre parole, Stuart non si dà in pasto al gergo Glaswegian e a una tradizione scozzese di storytelling della working-class – per quanto munita di queer sensibility – con precise mire storico-sociali o politiche.
Il suo alto tasso letterario è semmai il segnale di “disinteresse pratico” e finisce a incentivare, da metà romanzo in poi, la poetica e disperata love story edipica. Love story che poi conferisce vendibilità al romanzo presso il vasto pubblico senza scontentarne uno ristretto, grazie all’equilibrio delle molte pagine riuscite; per fare un esempio: quelle del party degli AA organizzato a sorpresa e inopinatamente per Agnes o quelle in cui Stuart descrive l’isoletta nella torbiera dove Shuggie si costruisce con pezzi di moquette e oggetti di risulta uno spazio suo in cui illudersi di vivere autonomamente.
Sono stati fatti molti paragoni: Stuart ha preso qualcosa di certo dai colleghi scozzesi, un po’ di pop ma non paraculo da Irvin Welsh, lo sguardo cool dall’Alan Warner di Morvern Callar (Rave Girl da noi), qualche cupezza dal primo Iain Banks.
Sembrano fuorvianti invece nomi come Alan Hollinghurst – accostato a Stuart per il tema gay e per essersi concentrato sugli anni della Thatcher – o Hanya Yanagihara – idem per la gayness e in più per una certa riesumazione del romanzo tradizionale – né convince del tutto, se non per la piacevolezza della lettura, il riferimento con il memorialista Frank McCourt. Ma poi, messi insieme questi tre ultimi nomi con quello di Douglas Stuart, si avverte, leggendo e appassionandosi, più di qualche risonanza.
IL LIBRO Douglas Stuart, Storia di Shuggie Bain, traduzione di Carlo Prosperi (Mondadori)
A margine: Crocifisso a Easterhouse. Per l’immagine di copertina, parole tratte dal blog del fotografo Jez Coulson: “…not the optimal final print… but hey… it takes you back to see some of the old stuff… takes me back to Thatcher’s Britain mass unemployment and poverty. Deprivation for many including children living in the poorest areas like this area called Easterhouse in Glasgow… I remember this image was used on a front page of a newspaper at the time with the headline: Crucified in Easterhouse”