Le fotografie di questo pezzo sono state scattate in analogico (e si vede) dal mio amico Marco Moro durante un concerto milanese di John Martyn, precedente quello a cui accenniamo qui: datarlo non importa, è come se fossimo ancora sotto il palco
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C’è una piccola conferenza stampa in una saletta della Dischi Ricordi, prima del sound check di un concerto milanese, è il 10 aprile del 1986, sede il Rolling Stone. Ricordo poco delle parole, ma ho un’immagine viva di John Martyn, trentenne simpatico e spigliato che beve disinvoltamente scotch whisky (è scozzese, no?) e parla con calore (quasi solo?) di politica.
“In Inghilterra abbiamo un grave problema, Margaret Thatcher: si diverte ad abolire le piccole conquiste della classe lavoratrice, senza lasciare in pace neanche i bambini… Ha tolto il latte gratis nelle scuole, che per molti era l’unica colazione possibile!… Il governo conservatore lascia troppo potere alla polizia. La mia canzone Nightline si riferisce all’episodio di quell’ispettore che, per inseguire un giovane ladruncolo, si è infilato in un appartamento e ha sparato a una signora sessantenne…” (da un outtake di un’intervista rilasciata al Buscadero)
John Martyn è ritornato alla Island, distribuita in Italia da Ricordi, con Sapphire (novembre 1984), è uscito a febbraio con Piece by Piece e tra poco pubblicherà il live Foundations (ottobre 1987): il primo track del disco dal vivo è significativamente Mad Dog Days, ripreso da Sapphire, la canzone dedicata ai giorni maledetti della perfida Maggie (Oh no never, could never get used to you…).
Il climax politico per l’artista si manifesta curiosamente nel momento di un inatteso successo commerciale che, secondo puristi infastiditi, è incarnato dalla liason con Phil Collins, dalla conseguente scelta di abbracciare la fredda elettronica degli anni Ottanta e persino di portare, sul palco, costosi occhiali da sole…
Storie (palle). Gli anni Ottanta sono i controversi anni della Thatcher per chi vive Oltre Manica. Il 1984 è quello cruciale in cui si incendia la lotta tra il premier e le Trade Unions, c’è il grande sciopero dei minatori, sostenuto dai musicisti che poi formeranno il collettivo Red Wedge (il nome deriva dal dipinto Il Cuneo Rosso che batte i bianchi di El Lissitzky): la Lady di Ferro potrà dire di aver vinto la battaglia ma non la guerra nel marzo del 1985 – lascerà comunque Downing Street solo il 28 novembre 1990.
Parlava d’altro invece – viene da dire quasi per forza – il primo album di John Martyn con Collins, quel Grace And Danger (ottobre 1980), ampiamente dedicato al divorzio dalla moglie Beverley (I mutter desperately darling/ As you say goodbye/ As I start to cry). Il disco è così “facile” che alla Island vogliono congelarlo in quanto deprimente.
Sempre da quei tempi. Leggo un’intervista apparsa su Ciao 2001 nel 1982 dove in sommario si afferma (e dài) che il songwriter scozzese sta raggiungendo finalmente il grande pubblico. Martyn dice in sostanza tre cose: che Collins è bravo in studio a capire cosa funziona (mentre lui no); che lui suona solo quello che gli va; che se dovesse trovare un difetto a Glorious Fool allora ultimo album uscito (settembre 1981), e il primo dei due per la Wea, è l’esser poco avventuroso.
Quantifichiamo per evitare equivoci: successo commerciale significa, in pratica, che i dischi Wea e Piece by Piece portano per la prima volta John Martyn nella Top 30 (fonte: Drew Heatley, liner notes di Live at Leeds and More, 2006).
Ho sempre considerato il periodo Martyn/Collins come un esempio della mancanza di pregiudizi di un uomo che ha sempre inteso la musica al di fuori dei generi, a partire dall’esordio su disco di London Conversation (ottobre 1967). Folk, blues, jazz, rock, reggae, acustico o elettrico, da solo o con effetti tipo l’Echoplex o in band con amici e con grandi nomi (Clapton, Winwood, Gilmour…), John Martyn ha sempre suonato JM music.
Tutta la carriera di John Martyn è legata a una ricerca sonora, che lo fa uscire presto dalla routine del folk singer che strimpella, e parte dalla costruzione di un sound system comodo da usare negli show live, al cui centro c’è una chitarra acustica in cui è montato un pickup per elettrica. Lo sperimentare tra fuzzbox e sound devices, lo porta a usare (presto a modo suo) il celebre (anche grazie a lui) Echoplex, cui rimane legato il trade mark del suo stile chitarristico – molto ritmico, con le corde “strappate” dalle dita della mano destra.
Si ascolta l’Echoplex la prima volta su disco, credo, in Would You Believe Me?, su Stormbringer! (febbraio 1970), ma va sempre bene menzionare I’d Rather Be The Devil su Solid Air (febbraio 1973). E poi: mescolato al basso dell’amico Danny Thompson, il marchingegno è gran protagonista in funzione ritmica come serve a John nel leggendario Live at Leeds (settembre 1975, distribuito da casa Martyn, ad Hastings, durante un periodo di freddo con la Island). “The Echoplex changed my career because people hadn’t heard before” dice Martyn, che più tardi chiamerà una delle sue canzoni Big Muff come il suo preferito effects pedal – il pezzo compare su One World (novembre 1977), l’album nato dopo l’anno sabbatico in Giamaica. Appunto: in realtà, Big Muff – termine che ha un doppio senso slang – nasce scherzando durante un breakfast con Blackwell e con Lee “Scratch” Perry.
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L’Echoplex c’entra e avrebbe una parte antipatica – ma quasi per caso – nella storia tra John Martyn e Nick Drake. Prendiamola un po’ da lontano. Linda Thompson, in un’intervista a Alfredo Marziano per Rolling Stone Italia, ricorda i bei tempi: “…la Island di allora era una famiglia in cui ci si conosceva tutti. Chris Blackwell, il proprietario e fondatore, era un ragazzo ricco ed elegante di ottimo gusto. Io frequentavo soprattutto Sandy, Nick e John Martyn, che era stato un amico di infanzia. Giocavamo a carte, cantavamo insieme e tutti fumavano un sacco di erba…”.
A Nick John dedica, un anno prima che scompaia, la title track di Solid Air (febbraio 1973), l’album prodotto con John Wood, tra l’altro sound engineer di tutti e tre i dischi di Drake (I don’t know what’s going in your mind/ But I can tell you don’t like what you find/ When you’re living through solid air, solid air).
Ancora Linda Thompson (da Small Hours: The Long Night of John Martyn by Graeme Thomson, Omnibus Press) su quell’amicizia: “He (John, ndr) wasn’t at all uncomfortable or frightened of loving a man – not in a physical way – which was quite unusual in those days. Nick and John loved one another. It was quite Greek, without the sex”.
Drake vive a Haverstock Hill in Belsize Park, i Martyn, John e la sua donna Beverley, a Hampstead, una fermata più in là sulla Northern Line, si vedono spesso; a volte, Drake fa persino da babysitter alla coppia, la segue in vacanza a Hastings, East Sussex, dove John e Beverley hanno comprato casa. Nick siede in spiaggia lontano da tutto, è una sorta di “messiah” che non predica, oppure un gatto che si fa i fatti suoi.
Lega i due musicisti, anzi lega John a Nick, un bond segreto: se Danny Thompson è la parte estroversa di Martyn, Drake ne è la “dark shadow”, la vulnerabilità che John nasconde e lascia intravvedere semmai nelle canzoni. C’è di sicuro un pizzico di rivalità – John ammira l’impeccabile tecnica chitarristica dell’amico, la perfezione quasi senza sforzo, più in generale gli invidia il tranquillo côté borghese da cui proviene. Comunque. La canzone che dedica a Drake, Solid Air, è il riconoscimento di un legame forte, della eccezionalità dell’amico, e forse un invito impotente a un ragazzo che sta per scomparire nella depressione – Drake pare che trovi la dedica intrusiva, quel “ti seguirò” addirittura minaccioso.
I due amici si sarebbero lasciati in pessimo modo. Nick è frustrato e convinto di aver fallito nella musica – lui che non aveva mai sbagliato a scuola e nello sport – ma rivendica la purezza degli ideali degli anni Sessanta e accusa John di averli svenduti, “because he had gone electric and was using pedals and things”. Ecco l’Echoplex, ecco Big Muff. Nella lite che segue, John insulta Nick, passa un mese in cui i due non si parlano. Non lo faranno più. Nick muore (suicida?) a casa dei suoi, a Tanworth-in-Arden il 24 novembre 1974. Solid air, troppa solid air.
Nell’ottobre del 2008, in un’intervista a Uncut, gli viene chiesto se faccia fatica a cantare quella canzone, e Martyn dice: “No, it was never difficult singing that – people shuffle off their mortal coil left, right and centre, don’t they? No one’s written a song about me yet [laughs]. That’s because I’m still here”.
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Qui in effetti inizia una coda a queste due piccole storie, dove i genii scomparsi sono diventati due – John Martyn muore per complicazioni polmonari a Kingston upon Thames, il 29 gennaio 2009, lascia la compagna degli ultimi dieci anni, Theresa Walsh e raggiunge Nick Drake over the rainbow – anche se di quella canzone, secondo i puristi o secondo chi ne ha fatto un inno LGTB, Martyn aveva il difetto di proporre una cover cupa, elettrica e buia, suggerendo con la voce un’amarezza immedicabile, un’infelicità che non può essere lenita da una fiaba – io per quel che conta l’ho sempre ascoltata volentieri, considerando un merito di Martyn esplicitare il lato inedito di uno standard dalla bellezza ipnotizzante.
Passano gli anni e ricompare Beverley Martyn (Coventry, 1946), che avevamo lasciato ai difficili giorni degli Eighties di Grace and Danger, quando John, da tempo troppo ubriaco e fatto, si ritrova solo – secondo l’obituary di The Times e tutte le testimonianze incontrate spulciando interviste ed articoli – oppure, poiché si ritrova solo, passa definitivamente i limiti per alcool e droga – secondo una vulgata pietistica con scarsissimi supporti.
Le due vite di John Martyn e Nick Drake trovano un punto in comune in un’inquietudine che traspare nella musica e nelle parole – sono poi questi i segni attraverso cui possiamo conoscerli senza cadere nei cliché dei pettegolezzi.
Rimangono certo dei freeze frame. Martyn il cui rendimento in concerto è condizionato da blend di whisky e birra o dalla mancanza di cocaina, l’impareggiabile bevitore di vodka che si costruisce party intorno, descritto nei primi Settanta dall’ammirata collega-ragazzina Claire Hamill (fonte: Solid Air: the Life of JM di Chris Nickson, CLC, 2011). Drake che invece non vuole più suonare live, impacciato dai laboriosi cambi di accordatura richiesti dai suoi brani. Drake che esegue Pink Moon in studio in spettrale e astrale solitudine, come racconta il suo ingegnere del suono John Wood nel docu ND – Songs in a Conversation di Giorgio Testi.
Beverley Kutner e John Martyn si incontrano nei club di Londra, si innamorano e si sposano nel 1969. Il matrimonio in musica avviene sotto l’egida di Joe Boyd, bostoniano trasferito in Inghilterra, e della sua casa di produzione Witchseason (Drake, i Thompson, Richard e Linda…). Amico di entrambi e alla console di tutt’e due i dischi firmati dalla coppia nel 1970, così come fra il 1969 e il 1971 è stato il mentore di Drake, il quale patisce molto il trasferimento di Joe Boyd negli States per affari musicali con la Warner Bros. Ma questo ora non c’entra.
Inizialmente John deve suonare la chitarra per un disco di Beverley – lei è ben considerata, ha alle spalle addirittura il palco di Monterey 1967, dove ha raggiunto l’allora fidanzato on and off Paul Simon. Nasce invece Stormbringer! nell’estate del 1969, registrato agli studi A & R di New York, il che agevola la presenza tra i session men di Levon Helm della Band e di Billy Mundi delle Mothers of Invention. Tutto sotto controllo: l’album esce nel febbraio 1970. Per The Road to Ruin, pubblicato nel novembre dello stesso anno, e in cui per la prima volta appare Danny Thompson, allora nei Pentangle, si dice che sorgano discussioni molto violente con Boyd – addirittura minacce con un coltello – perché Martyn vuole un disco meno costruito.
Sul valore dei due album, non pesa l’apporto disomogeneo della coppia – che non si fonde, ma si dà il cambio, pur se Beverley è gregaria. Martyn procederebbe pure con la formula del duo, ma Island cui il loro destino è legato dopo la partenza di Boyd decide che no – è un calcolo ovviamente di appeal commerciale.
Padron Chris Blackwell dice che non ricorda come è andata e che lui non c’entra. Però: Beverley sparisce e fa la madre – un po’ pure al sempre più cupo Nick Drake – dopo aver abbracciato John sulla cover del Portatore di Tempesta e essersi nascosta insieme a lui dietro il minaccioso disegno in copertina alla Strada per la Rovina.
Il fatto che Bless the Weather (novembre 1971), il quinto disco, sia in qualche modo quello della prima vera maturità di Martyn, con Head and Heart intesi come canzone ma più ancora come enunciazione di poetica – si parte sempre col cuore, si arriva al filtro del cervello – chiude in qualche modo la questione. La voce di Martyn ora è uno strumento, un sax che attraversa il significato delle parole e delinea nelle liriche scarne un modello personale di love song. La straordinaria intesa con Thompson e la scoperta di ritmo ed elettricità aspettano solo di ritrovarsi nella perfezione del passo successivo, Solid Air (febbraio 1973).
Sfoglio Some People Are Crazy: The John Martyn Story di John Neil Munro (Birlinn, 2007). Leggo dello split artistico con Beverley e del periodo in cui Martyn si trova impegnato tra un gigs e l’altro – la vera fonte di sostentamento – e poi tra un continente e l’altro in un’altalena di concerti riusciti o meno. Le ferita del divorzio musicale tra lui e Beverley non si rimarginerà – nonché quello tra lui e ogni sorta di discografico.
Va detto. Nella autobiografia Sweet Honesty – The Beverley Martyn Story (Jaki da Costa, 2012), Beverley si barcamena impacciata quando deve affrontare il capitolo della violenza (psichica e fisica) cui sarebbe stata sottoposta da John – rozzo in quanto uomo di Glasgow?, nota qualcuno ironicamente commentando sul web – ma non può che notare di essere stata soffocata come cantante e songwriter dalla partnership con il marito.
“It was good, it was bad, and sometimes it was magical”, Beverley mette questa pietra tombale sul loro amore. “There was love there – it was the drink and the bad drugs, the very heavy ones, that changed his disposition, and they made life unbearable for anyone around him”. Ne esce il ritratto di un uomo costantemente oltre il limite e mosso da un atteggiamento insieme vitalistico e autodistruttivo che Beverley a un tratto trova impossibile condividere (fonte: The Glasgow Herald).
E ancora: “He mistrusted women because his mother had left him, and he treated them really badly, physically and mentally”, dirà al Guardian nell’aprile del 2014. Non è difficile per contrappasso pensare all’uomo che canta Angeline – da Piece by Piece e pezzo forte del concerto milanese del 10 aprile del 1986 su cui abbiamo aperto queste righe – un uomo disperato sotto la pioggia, pronto a essere tradito e umiliato nella sua incongrua richiesta di pace…
La vita di Beverley resta sommersa per anni; anzi, elevata e sottratta alla nostra vista, nella casa di Hastings. Ci sono i due bambini, Mhairi e Spencer. Spencer che passerà molti guai. Beverley torna a farsi sentire nel 1990, poi passa altro tempo, canta a un tributo per Bert Jansch (un altro ex boyfriend), è shockata dalla morte di John nel 2009, ma si sente in qualche modo libera di risollevare la testa. Riemerge nel 2014 con un album, The Phoenix and the Turtle, contenente un inedito firmato addirittura con Nick Drake, Reckless Lady.
Nick Drake era il contrario di John Martyn. Dice Beverley: “He was the most introverted character I’ve ever met. Locked in. Sometimes he’d talk, sometimes he’d have a cup of tea and hold it for three hours looking out at sea. I think he felt safe with me, and I tried to take care of him”.
La canzone è stata iniziata poco prima della morte di Drake e viene finita decenni dopo. Beverley Martyn la incide apposta con un arrangiamento orchestrale che ricorda quelli di Robert Kirby – avete presente il cello in The Thoughts of Mary Jane o l’orchestra di River Man? Sembra arrivare ormai da un altro mondo. Reckless Lady. E l’altro: il cantante dall’aura “luciferian” che le piaceva tanto, dove sarà adesso John Martyn, il Reckless Boy?
Fonti (dove non indicato): per ogni info su John Martyn è essenziale il blog Big Muff
Le fotografie sono di Marco Moro