Questo è l’anno di Dante Alighieri: 700 anni dalla morte di Dante. Ne sentirete parlare spesso e capirete che sarà come toccare il lato B alla Madonna: blasfemo ma sensazionale. Hanno cominciato con il dare la baia a Arno Weidmann, il solito tedesco nemico dell’Italia tutta pizza, mandolini e mafia.
In realtà, chi ha letto il suo articolo sul Frankfurter Rundschau sa che non è così. C’è voluto un insospettabile in materia (per quanto da un po’ di tempo criticabile per comprensibile eccesso di esibizionismo) come Roberto Saviano per ricordare su Il Corriere della Sera che Weidmann ha replicato alle assurde polemiche dicendo: «Non ho mai espresso i giudizi che mi attribuiscono. Qualcuno in Italia ha bisogno di trovare sicurezze nel passato in mezzo a tanta insicurezza».
Chiede Saviano: «Allora, Arno, è vero che hai attaccato Dante nel tuo articolo?». «Tutt’altro, ho sempre amato Dante e ne ho già scritto diverse volte. Dante è il più grande esempio di poeta in esilio e la parte migliore della letteratura europea, da Ovidio in poi, è stata creata in esilio. Io indago la letteratura dell’esilio da sempre…». Segue: «Ma non hai detto che Shakespeare è meglio di Dante? ». «Ma per nulla, ho fatto riferimento a Eliot sottintendendo un suo scritto molto famoso, in cui divide la letteratura in due: da una parte Dante, dall’altra Shakespeare. Ho concentrato questo nella riflessione su Dante pensatore morale, poeta che si mette sul trono di Dio per giudicare e Shakespeare che gioca con gli uomini nella sospensione del giudizio».
Detto questo, non avrei bisogno di aggiungere altro salvo una riflessione di una mia amica, Lorenza Boninu, che insegna lettere in un liceo di provincia da oltre trent’anni. Lorenza ha scritto questa autoriflessione su Facebook: «Ma come? Ti vanti da sempre di essere un’appassionata di Dante (forse, sulla proverbiale isola deserta, se dovessi portare un solo libro con te, sceglieresti proprio la Commedia) e oggi, che è il Dantedì, non trovi niente da dire, nulla da celebrare commossa, nessuna citazione colta da fare, nessuna iniziativa da condividere o alla quale partecipare? Ebbene sì. Ho una specie d’idiosincrasia istintiva nei confronti delle singole giornate celebrative, quelle che servono per garantirsi appartenenza, identità e, forse, anche un facile consenso.
Mi si perdoni il paragone: è un po’ come l’8 marzo. Che ce ne facciamo di una “festa della donna” durante la quale tutti ci omaggiano di frasi gentili e rami di mimosa mentre nei restanti 364 giorni dell’anno la condizione delle donne resta quella che è? Così per Dante. Certo, non nego che le molte meritorie iniziative possano accendere una scintilla di attenzione in più sulla Commedia, nonché richiamare alla distratta memoria di qualcuno impolverati ricordi scolastici. E sia! Ma temo che oggi Dante, a scuola, in realtà si studi poco e male e non basterà nessun monumentale “giorno della memoria dantesca” per rimediare. Perché? Perché si studia poco e male la letteratura in generale. Perché l’orizzonte culturale entro il quale si muove Dante è sempre più estraneo ai ragazzi e anche a molti adulti. Non di rado, quando commento un canto, mi trovo a fare simpatiche lezioni di catechismo, giusto per spiegare quelle quattro cose che un tempo, si fosse credenti o atei, erano comunque patrimonio comune.
Perché il tempo manca, e fra un progettino, un’iniziativa di orientamento, una lezione di educazione alla salute, di spazio per approfondire, commentare, contestualizzare non solo Dante, ma anche gli altri “grandi” della nostra letteratura, ne resta veramente poco. Diamine! Io sono diventata insegnante perché volevo ragionare di letteratura e ragionarne bene; certo, senza inutile erudizione, senza tediosi tecnicismi, ma comunque con rispetto filologico, scrupolo interpretativo, giusto metodo storico. Insomma, con passione per la ricerca e onestà intellettuale, ma oggi questo è diventato un compito sempre più gravoso e complicato. Devo tagliare, ridurre, adattare, tradurre, e comunque combattere contro ciò che spinge non verso l’approfondimento ma verso la superficialità, la chiacchiera, i lustrini. Che me ne faccio, allora, del Dantedì? Poco o nulla, a dire il vero, e di certo non mette a posto la mia coscienza di tormentata professoressa di lettere».
Ecco la questione: il Dantedì. Ma chi ha inventato questo odioso neologismo? Forse quando si celebrerà l’anniversario della morte di Garibaldi si dovrà parlare di un Garibaldì? Non bastavano già le Colombiadi che nel 1992, per lo meno, cambiarono un po’ del volto di Genova immettendo finanziamenti per opere utili e necessarie alla città? Ora basta la propaganda. Ma chi sarà il creativo che ha coniato il termine Dantedì (25 marzo data della morte di Dante 700 anni fa)? A me, se proprio vogliamo provare a parlare di Dante Alighieri sul serio, basterebbe rivolgere ai lettori un invito:
«Leggete Alessandro Barbero, Dante, Laterza, ottobre 2020. Un libro che spiega tante cose del letterato, del poeta e della vita sua e del clima politico in cui visse e morì. Se vogliamo, e senza bisogno di essere grandi come Dante, questo libro ci spiegherà tante cose anche della vita nostra e della politica in cui siamo immersi: un po’ esuli noi stessi, non privi di contraddizioni come lui, eppure capaci e vogliosi di slanci. Intendiamoci, senza che Barbero lo intenda espressamente, ma solo leggendo ciò che racconta dell’uomo Dante con scorrevolezza, pacatezza e straordinaria competenza».
Forse, almeno ai più giovani, questa consapevolezza potrebbe servire.