Ci sono parole che si ha timore a pronunciare. Una è “progresso” (dal lat. progressus–us, der. di progrĕdi “andare avanti, avanzare”). Suona ridicola, ingenua come un ragazzotto di provincia in visita per la prima volta in una grande città. Forse la causa sta nel grande successo che ha avuto in passato e nelle aspettative che ha creato: il progresso sarà infinito; staremo bene, anzi benissimo, tutti; sempre meglio. Scomparse la miseria, le guerre, le malattie. Tutti insieme, tutti uniti, tutti fratelli.
Di certo “sinistra” è la parola che ultimamente si ha più ritegno a nominare. Mentre “destra” la si brandisce più che esibire con voluttà, “sinistra” la si sussurra con lo stesso malcelato imbarazzo con cui si guadagna l’ingresso del bar più vicino: “Buongiorno! Vorrei un caffè!”. E poi sottovoce: “Può indicarmi la toelette per favore?”.
Forse ci si vergogna della parola “sinistra” perché non si sa più con certezza cosa significhi né soprattutto cosa implichi nel qui e ora dell’esistenza. (Sento già il cugino dell’amico mio affermare con foga, anzi gridare, che lui sa benissimo cosa voglia dire sinistra perché lui è rimasto di sinistra – dice proprio così: “rimasto” alludendo forse al fatto che lui non s’è spostato d’una virgola neppure fisicamente – a dispetto di tutto e di tutti, e soprattutto di chi la sinistra l’ha abbandonata, eccetera eccetera eccetera, neanche fosse una simil Butterfly e i traditori novelli Pinkerton).
Per tornare a “progresso”, il lemma strettamente imparentato (viaggiano appiccicati come gemelli siamesi) è “felicità”. Il progresso è progresso invece che regresso perché, appunto, tra le infinite altre conseguenze ci avrebbe anche reso tutti felici. Nondimanco la felicità, la sua ricerca, stranamente non è passata di moda come parola né tantomeno come diritto delle genti; se il progresso ci ha illuso e deluso, la felicità resta in ogni caso un’aspirazione rivendicabile come uno stato di natura, come il bel tempo quando si è in vacanza in una località di mare – capirà signora mia, con quel che s’è pagato – la felicità è un dovere, un obbligo, una destinazione teleologica: persino Wittgenstein sul letto di morte pare abbia esclamato “dite ai miei amici che ho avuto un’esistenza felice”.
Ma perché “sinistra” e “progresso” sono tragicamente passate di moda? E perché mai hanno pure perduto l’ancoraggio con “libertà”, la terza parola magica donataci dall’umanesimo ottocentesco? (To-day-as to-day – come direbbero quelli che l’inglese non lo sanno e quindi lo abusano a litrazzi come l’acqua di colonia – “libertà” oggi fa rima con riapertura, apericena, ristorante, bar, baretto, birreria, negozio: ovvero libertà economica di riprendere a intraprendere per non morire…).
Sono molte le domande delle cento pistole che inutilmente mi pongo in questi (ultimi?) giorni di clausura felice in attesa che il vaccino divenga per tutti “libero e gratuito” come si gridava un tempo. Perché mai la “sinistra” ha consegnato centinaia di migliaia (milioni?) di piccoli e piccolissimi lavoratori autonomi (baristi, camerieri, cuochi, ristoratori, insegnanti di tango, istruttori di palestre e di autoscuole, commercianti piccoli, medi e grandi, baby-sitter, dog-sitter, badanti, artigiani e artigianelli, startupper veri e falsi, attori, musicisti, tecnici dello spettacolo, operatori turistici, massaggiatrici vere e false, eccetera eccetera… insomma il popolo minuto delle partite Iva e non) alla “destra”? Gente che si fa il mazzo, mica campa all’Isola dei Famosi.
Perché la “sinistra”, se non sei un rifugiato siriano, se non sbarchi da un gommone, se non stai in galera al Cairo, se non difendi la foresta Amazzonica (variante: il mare dalla plastica, il cielo dallo smog, il verde pubblico dalla cacca dei cani) non ti si fila neanche se piangi in Lineare B?
Perché la parola “libertà” – un tempo sogno, aspirazione, simbolo – di chi si riconosceva nel campo progressista (eccolo qua che ritorna) – è oggi monopolio di sovranisti, no-vax, no-mask, no-lockdown? Perché la “sinistra” assumere le fattezze della più arcigna delle governess, felice solo quando può negare, restringere, impedire, rinchiudere, vietare? Mi sbaglio o un tempo non erano le classiche parole della destra legge-e-ordine?
Un tempo, anni fa, in vacanza in Sicilia ospite di un caro amico, ebbi un diverbio che nella mia ingenuità pensavo fosse di natura ideologica mentre invece era antropologia allo stato puro. L’amico mi informava del fatto che, scaduta la carta d’identità, l’avrebbe rinnovata al volo grazie all’amico dell’amico impiegato al Comune di XY. Al mio infastidito stupore e alle mie sciocche rimostranze (“poiché è un dovere possedere quel documento, è un diritto esserne dotati senza fottere gli altri scavalcando la coda”) mi rispose che pur volendomi bene altro non ero che il solito “rigorista di sinistra”, il nordico ossessionato dagli obblighi e dai divieti. Uno che toglieva l’aria con la menata delle regole. Un nemico della libertà e financo della gioiosità della vita. Al lui come ad altri faceva comodo fingere di non sapere che le regole in un Paese democratico tutelano soprattutto i più deboli; per esempio quelli che non hanno amici in Comune o che la sera usano i mezzi pubblici invece del taxi.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, l’ho scritto giorni fa sulla bacheca di un amico, sosteneva che “siamo liberi solo quando tutti lo sono”. Il ragazzo coglie nel segno anche se non era quel si definisce un fior di liberale. Era convinto che la libertà fosse destinata a crescere lungo tutto il corso della Storia (con la esse maiuscola) e, anzi, segnasse la direzione stessa della storia verso un illimitato, infinito progresso di liberalità. Sappiamo che così non è, né è mai stato. Continuo tuttavia a credere che se il mio vicino barista (calzolaio, maestro di tango, fotografo, piscia-cani o startupper) non è libero, neppure io potrò esserlo.
credit foto in apertura: “Bandiera Rossa” by STEVE BEST ONE is licensed under CC BY-NC-SA 2.0