Nel romanzo Salvare il fuoco (Bompiani) di Guillermo Arriaga (Città del Messico, 1958), secondo il marchio di fabbrica dello scrittore, ci sono più storie che scorrono parallele ma fin dall’inizio paiono destinate – quando cioè il loro destino verrà deciso dal demiurgo Arriaga – a incrociarsi. Mescolarsi. Esporsi a una serie di reazioni fisico chimiche fino a deflagrare, guidate come sono da forze inarrestabili come amore e morte, bene e male, miseria e potere, what else?
Così si parte, nel Messico di questi giorni, e noi seguiamo: l’avventura nel folle mondo dei Narcos di un degenere rampollo indio già colpevole di aver dato fuoco a un padre padrone. Il diario intimo di un personaggio più che ombroso, e a lungo senza volto, che scopriremo essere l’altro figlio del dispotico Ceferino, pedagogo a modo suo – sospende i bambini in gabbie per allenarli alla vita e prepararli alla rivalsa dei nativi. E poi: ficchiamo il naso nella vicenda umana e artistica di una coreografa molto borghese e non poco bovarista, che si esibisce in carcere in balletti d’avantgarde bagnati di sangue mestruale. E ancora: collezioniamo le provocazioni di un cineasta gay assai radical chic che però basa i suoi consumi e il suo prestigio su un patrimonio di famiglia lordo di sfruttamento e di sventura proletaria. In ogni modo: da cosa nasce cosa, nel vagabondare per le pagine inquieto e istintivo di Arriaga, che si diverte a viaggiare liberamente tra le parole e i fatti senza bisogno di cavar sempre di tasca la bussola.
Chi lo conosce – buttiamo lì qualche titolo preso dal suo poliedrico cv – per il romanzo Il bufalo della notte (Fazi, 2004) o per le sceneggiature di Amores perros (2000) o 21 grammi (2002) firmate per Alejandro González Iñárritu o per il film tutto suo The Burning Plain (2008), sa che il messicano ama le grandi storie e non si tira mai indietro nel trattare, a viso aperto e con spirito schietto, temi forti, anche fuori proporzione.
Stavolta, poiché si narra tra l’altro di una sorta di scuola di scrittura tenuta in una spaventevole prigione, il Reclusorio Oriente – con vari dattiloscritti di abbruttiti detenuti inseriti nel testo, all’inizio di ogni capitolo, alla stregua di misteri dolorosi del rosario – sembra che il fil rouge delle 800 e passa pagine siano la verità e l’autenticità, la liberazione di cui può essere viatico l’arte – si parla, dicevamo, anche di balletto e di cinema – ma in particolare lo scrivere.
Così, un po’ per convinzione, un po’ per celia, un po’ pure per spaventarci, con l’aiuto delle “anime nere” del carcere, Arriaga mira a narrare l’essenza disperata della vita, colta nel degrado e nella sua nientificante spietatezza, cose di cui è ignaro il placido borghese – non per niente, a livello di trama, offre i momenti migliori del libro, incarnandosi al femminile, nella lunga anzi interminabile love story elettrica di sesso che coinvolge la ballerina giudiziosamente progressista con un uomo massimamente dannato.
Ma come scrive Guillermo Arriaga, tradotto qui dallo scrittore italiano Bruno Arpaia? Svelto e possente, sovente bombastico, come conviene al romanzone popolare in cui lui in fondo è conscio di trovarsi, accelerando pure sull’oleoso terreno del Kitsch; e amen se, tra inchini un po’ forzati a Conrad (Cuore di tenebra), Camus (Lo straniero) e Nietzsche (sempre) affiorano, in una scrittura che invoca in aiuto ed espone le “budella”, truculenze e sentimentalismi, gonfiori e cliché. Per dire: “Passati gli urti, restava il sedimento dell’umanità, come restano pepite d’oro nella sabbia dei fiumi agitati. Lì nella melma abitavano anche la lealtà e il perdono”. Arriaga at his best è così. Prendere o lasciare. E noi che l’abbiamo letto d’un fiato gli accordiamo appunto un “leale perdono”.
A margine. Specie quando affronta il gergo del narcotraffico, Arriaga fa il pastiche con un linguaggio da mala e termini americani storpiati. Arpaia lo asseconda creativamente. Dove si racconta di un’esecuzione per strada, troviamo un killer che se la batte dopo aver rimesso nella cinta la “baiaffa”, come in un romanzo marsigliese di Fusco. Più tardi, notiamo dei “cabbasisi” alla Camilleri e l’uso di una esotica (in Mexico) “schiscetta”, che è un roba milanese, credo, anche se letterariamente la usava il Marcovaldo di Calvino.
IL LIBRO Guillermo Arriaga, Salvare il fuoco, traduzione di Bruno Arpaia (Bompiani)
Credit foto Guillermo Arriaga “Arriaga Sharpie little lake” by pelicanwind is licensed under CC BY-NC-SA 2.0