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Allonsanfàn
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Mia Hansen-Løve, regista della perdita e della rinascita. Dal BFM39

Si può partire dallo strazio di una studentessa salutata dal suo ragazzo in partenza per un viaggio in Sudamerica che, già si capisce, lo porterà così lontano da cambiarlo. Lui diventa un altro, le lettere si diradano, lei si trova immobile nel buio dell’abbandono, tenta un goffo suicidio, si rimette a stento in piedi, fa come un robot la hostess nei convegni, studia architettura appassionandosi anche se dapprima immagina nei suoi disegni ambienti per studenti come tante celle monacali. Poi faticosamente la luce si riaccende, prima è un barlume – apparire del chiaro nello scuro – poi va meglio. Ha detto una volta la la regista Mia Hansen-Løve (Parigi, 1981): “Malgrado non creda in Dio, per me il cinema non può essere altro che ricerca di luce, è quindi ricerca dell’invisibile e dell’infinito”.

Vero, ma senza mai trascendere troppo. Il cinema di Mia H-L come in questo Un amour de jeunesse (2011) è molto umano, all’apparenza umile e votato alla realtà spicciola, sempre quotidiano, forse perché spesso autobiografico – che la macchina da presa abbia per Mia H-L il ruolo dell’architettura per la ragazza interpretata da Lola Créton? -, ed è un cinema spalancato al dolore provocato dalle cose della vita e, di seguito, trasformato in un diario delle difficili ricomposizioni tra donne e uomini e di donne e uomini dentro se stessi.

Un amour de jeunesse

Per esempio, il nitido Eden (2014), ispirato alle esperienze del fratello Sven, dj della scena house e sodale addirittura dei Daft Punk, descrive la discesa all’inferno della “gioventù pacata” parigina degli anni Novanta con una noncuranza nichilista che disintegra l’identità e richiede in un finale non consolatorio l’accettazione di una ragionevole quotidianità.

L’amore, l’abbandono, la crescita e la rinascita sono i temi cruciali di Mia H-L, figlia di due insegnanti di filosofia, lei stessa laureata in filosofia, esordio da attrice in Fin août, début septembre (1998) di Olivier Assayas, suo storico compagno oggi lasciato, e debutto alla regia di un lungometraggio con Tous est pardonné (2007).

È il “ricominciare a vivere” l’atto che unisce due tra i suoi film più belli, l’ancora acerbo Le père de mes enfants (2009, Premio della Giuria a Un Certain Regard) e il maturo L’avenir (2016, Orso d’argento per la regia a Berlino). Il primo è dedicato a un amico suicida, il produttore Humbert Balsan: la morte di un uomo diviene il banco di prova per una famiglia di donne, compresa simbolicamente la regista, lontana qui da ogni poetica dell’eccesso – ne fanno fede indirettamente due dichiarazioni di attori che impersonano cineasti. Nel secondo, un’algida Isabelle Huppert è una professoressa di filosofia (toh!) vittima di un “divorzio tardivo”, che scopre come la sua tranquilla vita “intelligente” sia stata un’insostenibile routine.

Mia Hansen-Løve sul set

Il cinema che cerca la luce o il “barlume”, come si dice in Un amour de jeunesse, è il movimento che esorcizza la sofferenza. Mia H-L che adora l’atto di fare cinema – e ha lavorato anche ai Cahiers – firma film coinvolgenti e privi di sentenziosità, studiati fino ad apparire leggeri, veri senza civettare con la presa diretta, e forse per tutto questo i critici francesi che la amano molto, parlando di lei, citano Rohmer e Truffaut. Noi possiamo immaginare che Mia H-L pensi del cinema quello che Huppert crede per l’editoria, quando ne L’avenir prova disgusto per i colori forti di una collana di libri e per il fatto che il richiamo per il “grande pubblico” passa oggi attraverso la volgarità delle forme (ma poi anche dei contenuti).

C’è curiosità ora per il nuovo film, Bergman Island, che verrà presentato al prossimo Cannes. Girato in inglese e interpretato da Tim Roth, narra di una coppia di registi americani ritiratisi sull’isola di Fårö, dove viveva il mito Ingmar, per scrivere un copione. Attendiamo con fiducia.

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