Dopo aver saputo da un’amica di una certa tristesse che alberga pure a Parigi e appellandomi al diritto di sogno che si può chiedere in tempi pesi alle “serie leggere”, mi sono infilato nei primi dieci episodi di Emily in Paris – sono appena cominciate le riprese della seconda annata – sperando che fosse un po’ come andare a spasso per Boulevard Saint Germain.
Bene cioè male ma no così così. Succede che Emily in Paris ha l’ambizione scherzosa di raccontare l’incontro tra due culture: Stati Uniti e Francia, il Nuovo e il Vecchio Mondo. E io già pensavo: scintille!, e molto contemporanee per di più, prima di cadere a capofitto e quasi annegare in un luccicante pentolone di brand di moda e luoghi comuni.
Comunque. La giovane americana, una Lily Collins pimpante e determinata al pari delle stylist debuttanti che a costo zero bazzicano le declinanti riviste fashion, piomba a Parigi da Chicago. Deve reimpostare da outsider il marketing di un’agenzia specializzata in prodotti del segmento lusso, la Savoir, dove il massimo della vitalità dei colleghi è tirar mattina per pranzare (mais oui!) al bistrot. Esattamente come si faceva anche ici, a Milano, nei tempi ante-crisi – non dico quella epocale del ’29 ma quella del Duemila e qualche cosa.
Ecco l’innesco della commedia brillante in forma di serie Netflix che ha per ideatore addirittura Darren Star, l’uomo dietro Sex and the City, titolo capostipite di ogni passeggiata ai bordi del catwalk. Darren che era già un mito tv ai tempi di Beverly Hills 90210 e ora come ora, l’ho constatato con un po’ di dispiacere, ronfa saporitamente seppure con grazia sugli allori.
Emily ci sbatte il muso, contro il decrepito e ipocrita milieu parigino. Ogni due per tre verrebbe da dire, come quel tipo del Grande Blek: Tonnerre du diable! Non fa conto dire che, a partire dalla portinaia stronza, gli abitanti di Paris sono sgarbati per natura, si credono chef stellati e cucinano l’omelette senza lavar poi la padella, fumano tutt’ora come turchi, abitano in chambres de bonne (di cui contano a cazzo i piani), vantano un metro labirintico e Dieu sa con che criterio hanno numerato i loro arrondissement…
In amore, poi, siamo al disastro: lì infatti apprendiano che tutti – in accordo implicito col coniuge – hanno l’amante e sono galletti sessisti che disegnano falli sui report che consegnano alla ragazza, mentre un profumiere marpione, un finissimo “naso”, è ancora addietro a inviare a Emily reggiseni di pizzo noir di La Perla…
Fulcro delle prime puntate, un Eva contro Eva da sempre tema molto modaiolo: lo scontro di Emily con una capa orrenda, la bionda Silvye, attorno agli anta – con regolare conflitto di interessi poiché ha un cliente amante – la quale ha per modello di comunicazione, al posto dei social network, il doppio bacio sulla guancia di quando ci si saluta, mentre la piccola americana sa usare Instagram come la più scaltra delle influencer – forse perché lo usa col cuore?
Giova dire che fra un vernissage e una nuova commessa all’agenzia, la voluttà di una cena comme il faut e un incontro glamour, di mezz’ora in mezz’ora (questo il timing della serie) Emily conquista Paris e, mentre gli altri si americanizzano, lei si incasina il cuore “parigizzandosi” – il fidanzato a distanza soccombe alla prima videochiamata erotica e per farci capire come vedono dagli Usa gli impianti elettrici della vecchia Europa, Emily fa saltare la luce dell’intero quartiere inserendo nella presa il vibratore.
Resta da capire mentre in effetti un po’ di Parigi di riffa o di raffa ce la godiamo, compresa un’orrenda mostra sensoriale di Van Gogh proiettato sui muri (non potevano girare due scene al Louvre?), resta da capire – e questo è sì interessante – come mai la tenera Emily, sincera in tutto come il pane (non come la baguette che le finisce in terra ai giardini del Luxembourg), sul lavoro è una bastarda pragmatica pronta a rinnegare sua madre per compiacere il primo cliente che passa e fargli vendere un profumo, un eyeliner, un divano… Escogitando campagne per prodotti lussuosi senza vergognarsi di coniare claim tipo “usare questo profumo è come indossare una poesia”.
Per gli sceneggiatori di Emily in Paris è evidentemente una questione irrilevante, forse perché fa parte della loro cultura e della loro attitudine: pensavano pure loro di venderci alla stregua di un prodotto à la page un’infilata di sketches (mancano solo le risatine finte) girati alla garibaldina e vecchi come il cucco. Rabbrividiamo quando scopriamo tra i nomi alla regia Zoe Cassavetes. Ma dai, noi poi li perdoniamo tutti lo stesso, Parigi val bene una serie.
A margine. Il momento moda clou per Emily è nel quinto episodio: il total look Chanel da pomeriggio chic compreso di sciarpa con cui Lily Collins va a inzigare un re dell’hôtellerie. Il più basso è il provinciale basco rosso da “vorrei essere parigina” della foto in alto.