Io scappo a nord, dice lo schiavo Caesar alla schiava Cora. Caesar vuole cercare con lei la via di casa (ma quale?), è fiero e coraggioso, sa leggere e ha tratto – ne avesse bisogno – prove della bestiale crudeltà dei padroni anche dai Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift: i bianchi possono persino danzare un minuetto mentre ardono vivo un nero davanti alla loro magione durante un pomeriggio di festa.
Caesar e Cora sono pura forza lavoro e procreazione di prole, cioè altra forza lavoro, in Georgia, nel Sud pre-Guerra Civile Americana del XIX secolo. La loro storia è raccontata con fasto da kolossal mescolato a brutale violenza fin dalla prima delle 11 puntate della serie Amazon The Underground Railroad, il che dà maggior slancio narrativo alla vicenda quando ci spostiamo nel campo dell’ucronìa – ottima per ogni invenzione ulteriore tra deliri e incubi eugenetici e pure per evitare guai sugli anacronismi.
Il regista e qui showrunner Barry Jenkins (Miami, 1979) è abituato alle imprese ambiziose: nel 2016 con Moonlight si è portato via l’Oscar per il miglior film – un Oscar speciale: il primo a un’opera a tematica LGBT, nonché a un cast composto solo da afroamericani. Nel suo cv c’è pure If Beale Street Could Talk (2018), adattato da James Baldwin, storica coscienza nera degli Usa razzisti.
Jenkins può dunque prendersi la briga di incrociare la sua strada con quella di un altro nome di punta, già ricoperto di allori, della cultura black statunitense, lo scrittore Colson Whitehead (New York, 1969), autore del romanzo The Underground Railroad, che ha incassato il National Book Award, il Pulitzer e il premio intitolato ad Arthur C. Clarke (2016-2017), uscito in Italia da Sur come La Ferrovia Sotterranea.
Così Jenkins e Whitehead firmano adesso, dividendosi la sceneggiatura, un progetto imaginifico alzando la posta della “visione poetica” di Whitehead: la serie disponibile dal 14 maggio su Prime Video rende infatti ancora più concreta la nota metafora della Ferrovia. Whitehead ha ipotizzato che non fosse solo un modo di dire, ma un reale mezzo di trasporto per schiavi in fuga, un sistema fatto di rotaie, case sicure e percorsi segreti. E la presenza del treno rimanda volutamente ad altri stermini.
Si chiede oggi Barry Jenkins, che ammette di aver provato una sorta di vergogna nell’aver rappresentato gli orrori della schiavitù con crudissimo realismo: “Se non ora quando? Quando sarà davvero il momento giusto per sfatare il mito dell’eccezionalismo americano, perpetrato manipolando la storia e la lingua, e offrire una presentazione più realistica della storia con un linguaggio chiaro e deciso?”. Di certo l’atteggiamento ambivalente del regista apre un’altra questione. È lecito dotare questa lunga serie di un plot tutto sommato “ingenuo” e tradizionale, come la caccia di un bounty killer a una indomita fuggiasca? Ambiguità simili le conosciamo già, dai tempi del cinema civile americano degli anni Sessanta: verità, spettacolo e soldi faticano a combinarsi bene insieme. Più in un film che, naturalmente, in un romanzo.
L’hashtag ufficiale della serie è #TheUndergroundRailroad.