Quando alla mia attuale direttrice di collana un giorno chiesero in base a quali criteri all’interno della casa editrice scegliessero i testi da pubblicare, in qualche modo non rispose o meglio, diede la risposta secondo un punto di vista che nessuno in sala si aspettava, disse che si erano sentiti quasi in dovere di pubblicare almeno un testo che parlasse di droghe, perché arrivavano decine e decine di testi che avevano la tossicodipendenza come tema centrale, quindi era arrivato il momento di dare voce a questa esigenza che pareva scoppiare come una diga mal congeniata nel Paese.
Indipendentemente se questa scelta comportasse davvero una resa economica. E avevano scelto il mio testo che parlava di un tempo lontano, la metà degli anni Ottanta, e di un piccolo mondo antico rappresentato da tribù di tossici, i loro riti, le loro gerarchie, la violenza in parte sedata dalla sostanza, la fragilità ostentata come forza, il rifiuto dell’età matura, della scuola, del lavoro, di ogni regola sociale, tutto in bilico tra la tragedia e un’ironia grottesca.
Pensai che la mia fosse comunque una mossa sbagliata, forse non aveva senso ridestare i lettori con quella tematica così aspra e ormai rimossa, magari a giusta ragione. Sta di fatto che il nostro Paese, sempre scarso di memoria, di quell’
Ma è come se fosse una botola che nessuno osava più riaprire, anche se nel novembre 2018 sull’argomento era uscito un libro di saggistica molto importante della storica Vanessa Roghi, Piccola città, per Laterza, molto scorrevole, ben documentato e di buon successo, dove si rammentava, tra le altre cose, che in una città come Verona di trecentomila abitanti a metà degli anni Ottanta si contavano quindicimila eroinomani censiti…
Ma la vita è strana, e un giorno una produzione Netflix italiana ha sapientemente raccontato di nuovo la favola nera di Vincenzo Muccioli, con un successo clamoroso e a mio parere meritato, una docufiction concepita in modo ineccepibile, con tanto di piccolo colpo di scena nei minuti finali delle puntate come nella grande tradizione della miglior fiction, ma con documenti veri, e testimonianze di grande impatto di alcuni degli ospiti della comunità in un crescendo che esplode con grande potenza all’assassinio di Roberto Maranzano al termine di violenti pestaggi. Inevitabile l’accostamento al corpo di Stefano Cucchi rivedendo le immagini di quel corpo percosso ripetutamente, di quella schiena martoriata. Io di quegli anni ho ricordi confusi, la prima tv del dolore, Paolo Villaggio ed Enrico Maria Salerno devoti e grati all’omaccione che aveva saputo essere duro con i loro figli. Perché loro, distratti, o fuorviati da certe “molli” teorie, non erano stati capaci di dare sberle fatte bene. Allora il gioco del “Sole piatti” lo avevano affidato ad altri. A quell’omaccione che continuava a ingrassare, a espandersi nelle carne e nel potere e a non accettare più lo stato di diritto come dogma. Il gioco crudele del “Sole piatti” consisteva nell’assestare due sberle contemporaneamente al “cattivo di giornata”, segnalato dai collaboratori più stretti di Muccioli, azione che si rifaceva a una nota pubblicità di quel periodo.
“Quanto male sei disposto a tollerare perché sia fatto del bene?”. Carlo Gabardini, autore insieme a Gianluca Neri e Paolo Bernardelli, riassume bene il senso dell’intera vicenda di Muccioli e del suo quartier generale.
SanPa ha comunque cercato di dar conto della complessità della questione eroina: madri disperate incapaci di gestire figli perduti, ospiti che giustificano le durezze della comunità. Sta di fatto che quella Lourdes delle colline riminesi andava raccontata e i venticinque anni trascorsi dalla morte di Muccioli dovevano essere un lasso di tempo sufficiente per prendere congedo da ogni emotività dando un senso davvero oggettivo e storico alla vicenda. Non è andata esattamente così, in questo Paese nulla riposa in pace, non a caso il figlio Andrea ha fatto causa a Netflix per diffamazione aggravata. Sono davvero poche le ferite cicatrizzate in Italia.
E appunto come se la ferita fosse facile a riaprirsi, a valanga sono arrivati articoli e analisi postume, non solo sulla comunità, ma sull’eroina in senso lato, non sempre all’altezza del tema, non sempre consapevoli. Se SanPa esordisce con la prima delle cinque puntate il 20 dicembre 2020, il 19 febbraio dell’anno in corso prende via un altro tentativo di rappresentare nuovamente quello spaccato di vite eroso dalla dipendenza dall’eroina, in Germania azzardano una serie ispirata a Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, libro del 1978, film discreto girato quattro anni dopo. Ma qualcosa sembra non funzionare già dai primi minuti. Difficile datare la vicenda se non per le canzoni e il concerto di David Bowie, qualcosa non quadra nella perfezione dei giovani attori, nei colori, la perdizione progressiva naturalmente ci viene presentata, ma è come se non ci riguardasse mai davvero, come se qualcuno avesse lasciato aperte le finestre e un vento gelido ci distraesse impedendoci ogni empatia. E Christiane non è più la nostra Christiane F., è solo una ragazzina carina con una brutta famiglia e nei momenti più bassi a volte ci pare un Tempo delle mele+droga. Da un momento all’altro mi aspettavo con terrore che un fidanzatino un po’ drogato, ma ancora non abbastanza (tipo alla quinta puntata di otto non sono ancora drogatissimi), mettesse a Christiane delle cuffiette con una musica più dolce di quella sparata dal dj sciupafemmine.
Strano che dopo l’iniziazione di Christiane a opera di Benno, poi i due facciano l’amore, eroina e sesso sembrano estranei (a meno che non sia mercenario), l’eroina chiude in una bolla autarchica che non lascia desideri, e bene lo spiega infatti Fabio Cantelli, uno dei testimoni più importanti di SanPa che racconta di aver accettato un invito da una ragazza di cui era innamorato e che lo ospita insieme al fidanzato, una volta “fatto” per la prima volta in compagnia dei due, Cantelli si dimentica completamente dei suoi propositi. Forse il personaggio più convincente della serie tedesca è Axel, il tossicomane dolce e generoso che riesce comunque a essere un bravo operaio per quanto possibile, sempre triste e paranoico, teme di essere spiato da nemici non ben identificati e che solo lui avverte.
Gli autori forse avrebbero dovuto guardarsi certi film di Abel Ferrara, calarsi davvero nella melma con tutti gli stivali, come Ferrara fa ne Il cattivo tenente, ma soprattutto studiare la fotografia e le soluzioni di Requiem, un film tedesco (tedesco, cavolo, sveglia) del 2006 di Hans-Christian Schmid che pare davvero girato nei primi anni Settanta e ci fa davvero sprofondare in un buco temporale straniante, ma soprattutto il prodotto manca di vere idee, la discesa all’inferno è telefonata, annunciata, quasi logica conseguenza di fatti che si susseguono con una meccanica scontata.
Posto che SanPa e Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino sono due oggetti molto diversi aventi al centro lo stesso tema, l’eroina, non posso fare a meno di pensare che la fiction in certi casi mostra limiti e debolezze che materiale documentaristico ben assemblato supera con bello stile e che la rappresentazione del reale rischia di franare nel didascalico se un miracolo di creatività non arriva a salvare il progetto.
Ma queste operazioni parlano ancora di noi, oggi, del nostro presente? Oppure vanno catalogate come documenti e archiviati presa visione? C’è chi giura, e pure dati alla mano, che l’eroina e le droghe sedative in genere sono tornate, e forse nemmeno se ne sono mai andate definitivamente, meno costose, più sotterranee, piuttosto è l’uso della siringa a essere escluso in parte dal rigurgito, ecco quindi che sembrano scomparse le morti improvvise, l’overdose, parola che evoca da un lato l’acme tragico e dall’altro una certa epicità di un giovinezza bruciata in fretta, come quella di tante rock star, ma sta di fatto che se anche l’eroina scorresse ancora in canali sotterranei, è tutto il mondo attorno a essere mutato, i giovani non hanno più voglia di contestare il sistema socio politico, e nemmeno di chiamarsi fuori completamente dalle sue meccaniche. Per intenderci, uno degli ex ospiti di San Patrignano intervistati dice qualcosa di poco filosofico (apparentemente…) e molto concreto: abitando a Sassuolo, capitale mondiale della ceramica, la scelta per lui era finire in una fabbrica di piastrelle, oppure l’eroina, ovvero il chiamarsi fuori dal gioco produttivo, che lo schiacciava, e lui aveva optato per l’opzione B, sbagliata, tragica, eppure libera scelta, mentre Red Ronnie, fervido crociato muccioliano nella docufiction liquida il tossico come zombie, ectoplasma, privo di ogni dignità umana e di libero arbitrio.
Ma sembrano visioni fuori dal tempo quelle dell’ex ragazzo di Sassuolo.
Detto questo, da tenere in conto c’è però il dato storico presente, molto particolare: se le droghe eccitanti e performative (pasticche e cocaina in particolare) sembrano l’ideale per una vita frenetica e ingorda, le droghe sedative potrebbero essere utilizzate dai giovani per sopportare meglio stati di esclusione sociale e di mutazione di abitudini consolidate prodotti da mesi e mesi di lockdown, e forse pochi hanno fatto questa preoccupata considerazi
- Saverio Fattori (Molinella, 1966) ha pubblicato Alienazioni padane (2004), Chi ha ucciso i Talk Talk? (2006), Acido lattico (2008) e 12:47: strage in fabbrica (2012), tutti per Gaffi editore, e L’errore più geniale (Meridiano Zero 2019). Collabora con il mensile Correre. Il suo più recente romanzo, Finta Pelle, uscito da Marsilio nel 2020, affronta il tema di dipendenze vecchie e nuove: racconta l’incontro tra un uomo, ex eroinomane, e una donna, divenuta aliena all’ipocrisia della famiglia, che sono arrivati all’“ultimo giro di giostra”…
- SanPa è in onda su Netflix, Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino su Prime Video